I califfi e la Casa della saggezza a Baghdad di Clara Silvia Roero* |
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Com'è noto l'era islamica inizia il primo anno del suo calendario nel 622, quando il profeta Muhammad, nato a La Mecca nel 570, compie la celebre fuga, detta Egira (in arabo higra), a Medina. Le tribù guerriere dell'Arabia felix si sono fuse, sotto la sua guida, in un unico popolo, unito dalla fede nella nuova religione da lui predicata, secondo la quale l'uomo deve seguire l'Islam, cioè, dal significato letterale del vocabolo, "sottomettersi totalmente alla volontà di Allah", il Dio unico. L'abitudine beduina alla razzia viene sublimata al rango di guerra santa (gihad), concepita da Maometto e dai suoi successori, i califfi, anche come mezzo per superare i contrasti interni fra le tribù, e si trasforma presto in volontà di espansione e di conquista dei territori circostanti. Nel volgere di pochi secoli gli islamici conquistano e dominano un impero sterminato, i cui confini si estendono dal fiume Indo in Asia, all'Ebro in Spagna. Fra il 622 e il 945 l'irresistibile avanzata degli arabi procede infatti dall'Asia all'Europa, dal Caucaso ai Pirenei, conquistando la Persia, la Mesopotamia, la Siria, la Palestina, parte del Turkestan, del bacino dell'Indo e del Kirgizistan, l'Afghanistan, l'Egitto, la Cirenaica, la Tripolitania, Creta e la Sicilia, Cipro, l'Africa settentrionale e la Spagna. All'era dei primi califfi detti Rashîdun, cioè "ben diretti", fa seguito quella degli Omayyadi che giungono ad est fino al Tien-Shan, con la vittoria nel 751 a Talas contro i cinesi, mentre altre unità sottomettono nel 710 le tribù del Maghreb e si spingono, alla testa del berbero Tarik ibn Ziyad, oltre lo stretto che porterà il nome di Gibilterra, da Gebel-el-Tarik "la montagna di Tarik". Dai cinesi gli arabi apprendono le tecniche di fabbricazione della carta e impiantano prima a Samarcanda e poi a Baghdad le prime fabbriche i cui prodotti saranno importati persino da Bisanzio. È però soprattutto alla dinastia degli Abbasidi che si deve l'alto livello intellettuale e il grande sviluppo delle scienze raggiunto dagli arabi. La matematica che nei secoli VII e VIII era considerata unicamente per la sua utilità nella risoluzione di problemi pratici, sorti dal commercio, dall'architettura, dall'astronomia e in genere legata alle esigenze di vita quotidiana, grazie al mecenatismo dei califfi abbasidi Giafar al-Mansûr, Harûn al-Rashîd e Abdallah al-Ma'mûn[1] conosce fra il IX e il XIII secolo un periodo di straordinaria fioritura. Quest'epoca d'oro, densa di risultati originali, decolla in seguito allo studio e all'assimilazione delle opere dei greci, degli indiani e delle culture dei popoli conquistati. Dopo il 750 molti scienziati, filosofi e traduttori dalla Siria, dalla Persia e dalla Mesopotamia sono chiamati a Baghdad, la "città della pace" fondata da al-Mansûr con pianta circolare, destinata a diventare la nuova capitale della cultura, la nuova Alessandria. Anche la sua posizione geografica, fra India e Grecia, contribuisce a farne il centro del potere sia politico, che culturale. Fedeli ai dettami di Maometto che aveva collocato gli uomini istruiti "al terzo posto, dopo Dio e gli angeli", i califfi abbasidi affidavano l'educazione dei loro figli a eruditi, scienziati, poeti e musicisti, persuasi del detto popolare che "istruire l'infanzia è scolpire nella pietra". Lo storico Masudi [] narra come Harûn al-Rashîd avesse scelto per suo figlio il grammatico al-Ahmar, ammonendolo con queste parole: Il principe dei credenti ti affida il suo sangue più prezioso, il frutto del suo cuore. Ti lascia piena autorità su suo figlio e gli fa un dovere di obbedirti. Sii all'altezza del compito che il califfo ti ha assegnato: insegna al tuo allievo il Corano, fagli conoscere le tradizioni; orna la sua memoria con le poesie classiche; istruiscilo nelle nostre sacre usanze. Che egli misuri le parole e sappia parlare a proposito; regola le ore dei suoi svaghi. Insegnagli ad accogliere con rispetto gli anziani e a trattare con riguardo i capi che assisteranno ai suoi ricevimenti. Non lasciar passare un'ora della giornata senza trarne profitto per la sua educazione. Non essere né tanto severo da mortificare la sua intelligenza, né tanto indulgente da far sì che si abbandoni alla pigrizia e ci si abitui. Correggilo, per quanto dipenderà da te, usando l'amicizia e la dolcezza, ma se queste non hanno effetto su di lui, usa la severità e il rigore. Lo stesso Harûn aveva avuto dal padre Mahdi come pedagogo il famoso intellettuale Kisai e come tutore Yahya il barmecide, uno degli uomini più notevoli e intelligenti che abbiano governato i paesi arabi. Sotto i califfi abbasidi la corte di Baghdad si apre alla cultura e alle raffinatezze e soprattutto Harûn tende ad attirare nella sua orbita gli uomini considerati più eminenti nelle scienze, nelle lettere e nella teologia. Questi personaggi di talento, chiamati nadim, "compagni del califfo", sono ricompensati con elevati stipendi e doni e hanno come compito quello di interessarlo e distrarlo. devono saper insegnare senza pedanteria, saper conversare sui temi più disparati, eccellere nella caccia, nel tiro a segno e nei giochi della palla, degli scacchi, del tric-trac. Uomini e donne con queste qualità frequentano il fastoso palazzo e gli incantevoli giardini, dove i fiori sono disposti in modo da riprodurre famose poesie, gli alberi sono rivestiti di metalli preziosi tempestati di gemme e nei laghetti le ninfee disegnano le lettere di un versetto in gloria del califfo. Si narra che Harûn amasse pure circondarsi delle donne non solo più seducenti, ma anche più intelligenti e più dotate nel gioco degli scacchi, nel canto e nella musica. Pare che egli ricompensasse con favolosi doni le giovani schiave del palazzo che meglio giocavano a scacchi, e che avesse inviato alcune sue spose e concubine a Medina a imparare nelle famose scuole di musica, affidando la loro istruzione al celebre cantante e poeta Ishak. Nelle Mille e una notte troviamo pittoresche descrizioni dell'atmosfera raffinata e colta che si respirava alla corte di Harûn al-Rashîd e di al-Ma'mûn: Quel giardino si chiamava giardino delle delizie e in mezzo ad esso c'era un palazzo che si chiamava palazzo delle meraviglie ed era di proprietà del califfo Harûn al- Rashîd. Quando il califfo si sentiva il cuore oppresso veniva in quel giardino e in quel palazzo a cercare sollievo e distrazione l'intero palazzo era formato da un'unica immensa sala, illuminata da ottanta finestre quella sala si apriva soltanto quando veniva il califfo. Allora si accendevano tutte le lampade e il grande lampadario centrale e si aprivano tutte le finestre, e il califfo si sedeva sul suo grande divano foderato di seta, di velluto e d'oro, poi ordinava alle sue cantanti di cantare e ai suonatori dei vari strumenti di allietarlo con la loro musica ed è così che nella calma delle notti e nel dolce tepore dell'aria profumata dai fiori del giardino che al califfo si apriva il cuore, nella città di Baghdad. Il califfo che amava Ishak di grandissimo amore gli aveva dato come dimora il più bello e il più raffinato dei suoi palazzi. E là Ishak aveva come compito e missione quella di istruire nell'arte del canto e nell'armonia le fanciulle più dotate fra quelle che si acquistavano nel suk delle schiave e sui mercati di tutto il regno per l'harem del califfo. E quando una di esse si distingueva fra le compagne e le superava nell'arte del canto, del liuto e della chitarra, Ishak la conduceva dal califfo e la faceva cantare e suonare davanti a lui. E se piaceva al califfo, la si faceva immediatamente entrare nel suo harem. Queste descrizioni, che potrebbero forse apparire un po' troppo fantastiche, sono in realtà avvalorate dai resoconti degli ambasciatori inviati a Baghdad per concludere armistizi o per missioni diplomatiche. Basti citare la cronaca del monaco di San Gallo sui doni recati a Carlo Magno dai due dignitari musulmani appartenenti alla corte di Harûn al-Rashîd e dell'emiro di Kairuan, Ibrahim b. Aghlab: scimmie, balsami, unguenti, profumi, spezie e medicinali di ogni sorta "in quantità tale che pareva avessero svuotato sia l'Oriente che l'Occidente", oppure i racconti negli Annales Regni Francorum sulla seconda ambasceria inviata nell'802 che recò in dono a Carlo Magno una tenda di lino di straordinaria bellezza, pezze di seta colorata, due candelabri di bronzo dorato e un orologio "che lasciava stupefatti tutti coloro che lo vedevano". Pare si trattasse di una clessidra che ad ogni ora, al suono di un campanello, lasciava cadere in una vaschetta palline colorate, mentre a mezzogiorno dodici cavalieri si affacciavano da altrettante finestrelle. Si ricordano infine i resoconti, stilati nel secolo successivo dai bizantini Rhadinos e Toxaras mandati dall'imperatore di Bisanzio per riscattare i prigionieri greci. Se pure ammantati di leggenda questi aneddoti riflettono l'apertura degli Abbasidi verso gli orizzonti culturali e intellettuali dei paesi conquistati, che erano invece stati un po' trascurati in precedenza. Sotto l'influsso delle scuole nestoriane di Edessa e di Nisibe e dell'accademia di Gundeshapur, dove si traducevano opere greche di teologia, filosofia, medicina, astronomia, matematica e agricoltura, il califfo Harûn ospita a Baghdad gli intellettuali, transfughi dall'oriente e dall'occidente, e incoraggia l'opera dei traduttori e la raccolta di trattati greci e indiani che arricchiscano le biblioteche. Sotto il suo regno viene tradotta l'opera indiana di astronomia i Siddharta, considerata importante per i risvolti che ha sul culto religioso (basti pensare all'orientamento verso la Mecca, alla scansione delle ore di preghiera, alla determinazione del mese del digiuno,). segue poco dopo la traduzione degli Elementi di Euclide, poiché gli astronomi arabi si accorgono della carenza che hanno di conoscenze matematiche e soprattutto di geometria per capire a fondo l'astronomia. Il califfo al-Ma'mûn, figlio di Harûn, prosegue nell'iniziativa avviata dal padre e in seguito ad un sogno in cui gli era apparso Aristotele, invia una missione all'imperatore di Bisanzio con l'incarico di portargli i manoscritti greci conservati nei monasteri. Già al-Mansûr aveva chiesto ai bizantini dei libri come indennità o bottino di guerra e in particolare aveva preteso i trattati di matematica di Euclide. Verso l'830 al-Ma'mûn fonda a Baghdad la "casa della saggezza", in arabo Bayt al-Hikma, dotata di una ricchissima biblioteca, paragonabile a quella del museo di Alessandria, dove dimorano studiosi, scienziati e molti traduttori. Questi ultimi hanno il compito di volgere dal greco i testi classici scientifici e filosofici. La traduzione avveniva di solito dapprima in siriaco, poi in arabo. Ciò dipendeva dal fatto che era necessaria allo scopo non solo una buona cultura di base, ma anche la conoscenza del greco, noto soprattutto nelle comunità religiose siriache. I siriaci cristiani infatti, fin dai tempi della loro conversione al cristianesimo, nutrivano un grande interesse per la cultura greca, in particolare per le opere filosofiche e scientifiche. Essi studiano i testi di Aristotele, di Ippocrate di Cos e di Galeno, e quando i califfi si trasferiscono a Baghdad e hanno bisogno di cure mediche a causa dei disturbi derivanti dal mutato regime di vita, sono curati dai medici siriaci, molto più preparati dei beduini arabi. Il medico di Harûn, Gibril, è il nipote di uno degli insegnanti di medicina di Gundeshapur, il medico Ibn Bakhtyashu, e curerà l'edizione in siriaco del Kunnash, un'opera ispirata agli studi di Ippocrate, di Galeno e di Paolo di Egina, che avrà notevole fortuna anche in occidente nella scuola di Salerno. La fama dei dottori e degli scienziati siriaci si diffonde in breve nel mondo islamico e si trasmette di riflesso anche ai testi classici dai quali provenivano le loro conoscenze. Iniziano così le prime traduzioni degli scritti di Ippocrate e di Galeno, per passare poi a quelli di Aristotele e di altri autori classici. Si vengono a poco a poco a creare delle vere e proprie scuole di traduttori e di studiosi che si trasmettono di padre in figlio. All'epoca di Harûn si distinguono per i lavori scientifici Hunayn ibn Ishaq con il figlio Yakub e il nipote Hubayas, cristiani nestoriani islamizzati, e i tre figli di Musa ibn Shakir, il primo esperto astronomo, l'altro abile geometra e il terzo esperto di meccanica, che lasciano un trattato poi tradotto in latino col titolo Liber trium fratrum de geometria. Anche le esigenze di tipo istituzionale e amministrativo, conseguenti all'estensione del vasto impero arabo, contribuiscono al proliferare delle traduzioni e allo sviluppo della matematica. Dai popoli conquistati vengono riprese sia le regole di governo che le strutture organizzative e di amministrazione, ma i califfi che colgono pure l'importanza di una forza di coesione e di unità dello stato pretendono che i registri si tengano in arabo. Così, a poco a poco, la lingua araba diviene l'elemento unificatore dell'immenso dominio, sia dal punto di vista politico, che culturale. L'epoca di più intense traduzioni per la matematica è il IX secolo, che vede le versioni delle principali opere dell'antichità classica, come pure di quelle dell'antichità tarda. Di Euclide sono tradotti gli Elementi e i Data, come pure altri scritti di ottica e di meccanica; di Archimede l'intera produzione, di Apollonio le Coniche e l'opera De sectione rationis, andata perduta in greco. E non sono dimenticati neppure autori e commentatori del periodo tardo ellenistico come Pappo, Diofanto, il neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa ed Erone di Alessandria. Di una stessa opera inoltre si trovano anche più traduzioni e varie revisioni. Esse hanno particolare importanza dal punto di vista storico sia perché diedero impulso a far proseguire, presso gli arabi, un'attività matematica già esistente, sia anche perché costituirono il tramite attraverso il quale le opere classiche greche vennero conosciute in occidente. Gli Elementi di Euclide, ad esempio, penetrano per la prima volta in Europa nel 1142 da una versione latina, fatta da Adelardo di Bath, da un manoscritto arabo, e i tre ultimi libri delle Coniche di Apollonio, perduti nell'originale greco, ci sono pervenuti solo grazie a una traduzione araba. Addirittura le rilegature di molti volumi manoscritti del periodo medioevale, decorate con fregi in puro stile arabo, testimoniano questo passaggio. Alle traduzioni si deve però anche guardare con spirito critico poiché il loro scopo non era quello di essere fedeli all'originale, quanto piuttosto di diffondere le conoscenze, arricchendole di commenti, osservazioni e interpretazioni personali originali. L'Arithmetica di Diofanto, ad esempio, appare nelle versioni di Qustâ ibn Lûqâ e di Abu l-Wafâ', con uno stile ed un lessico algebrizzati, che rivelano chiaramente l'influenza esercitata su questi, dagli algebristi islamici del IX secolo. Gli stessi titoli Arte dell'Algebra e Trattato d'Algebra, dati da questi traduttori all'Arithmetica di Diofanto, rispecchiano chiaramente questa influenza. Nei secoli XI e XII il fenomeno delle traduzioni si ripete nelle città della Spagna conquistate dalla dinastia degli Omayyadi e studiosi da tutta l'Europa si recheranno nei centri di Cordova, Segovia, Toledo, Saragozza e Barcellona alla ricerca di manoscritti, da portare in patria, delle opere classiche, di cui fino ad allora conoscevano solo degli estratti. |
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*Clara Silvia Roero |
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