Conflitti e sincretismi religiosi aspetti del contatto fra Giudaismo ed Islam
di Longo Pietro
 

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Introduzione

Il sincretismo [1] è un processo in forza del quale due o più elementi culturali di sistemi differenti si congiungono, allo scopo di formare un sistema nuovo e distinto da quelli di partenza. Oggi il sincretismo rappresenta il fattore di evoluzione culturale più importante e si è verificato sovente nella storia delle religioni. Senza alcun dubbio tutte le religioni del mondo, Cristianesimo, Giudaismo, Islam, Induismo, Buddismo, ed anche il Confucianesimo, hanno avuto luogo come esiti di sincretismi. Il processo si verifica quando sistemi precedentemente indipendenti pervengono ad un contatto, e scarsa importanza assume il livello più o meno sofisticato al quale essi sono giunti al momento di incontrarsi. Al contrario enorme rilevanza è data alla posizione di superiorità e di inferiorità dei due elementi sistemici che interagiscono fra di loro. Se ad entrare in contatto sono, poniamo, due religioni, quella che risulterà superiore (ossia più forte) detterà le regole del sincretismo. Questo a sua volta può avere esiti alterni, e conduce a fenomeni che spaziano dall’inglobamento della religione più debole o di alcuni dei suoi elementi, fino alla totale scomparsa della stessa. La terza ipotesi, che più spesso si verifica, comporta invece la rielaborazione di elementi dell’una e dell’altra religione, allo scopo di creare un terzo prodotto del tutto originale. Il nostro breve studio intende osservare alcuni fenomeni di interazione fra la religione Islamica e quella Giudaica, in quegli spazi storici e geografici che hanno visto la prevalenza della fede musulmana su quella ebraica. Si inizierà dunque con una breve resoconto delle condizioni storiche che hanno visto sorgere entrambi i sistemi religiosi. Successivamente si intende dare spazio ad una veloce analisi del modo in cui, nelle comunità antiche, la religione islamica si è rapportata a quella ebraica, partendo dalle precisazioni che a riguardo sono sparse fra le sure del Corano, testo sacro dell’Islam. Si intenderà in tal modo evidenziare il carattere, a volte conflittuale altre volte invece pacifico, del sincretismo od anche del semplice contatto, avutosi nei secoli fra i popoli portatori delle due diverse fedi. Punto di partenza essenziale è il rifiuto netto anche solo del termine di sincretismo, da parte degli ambienti musulmani. I teologi infatti negano, a differenza degli antropologi e degli storici delle religioni, che si possa giustificare, parlando di sincretismo, la presenza e la continuità di alcuni elementi, fra le tre grandi religioni monoteistiche, fra le quali il Giudaismo è la più antica. Nonostante i dotti musulmani non neghino alcuni caratteri di analogia fra l’Islam e la religione degli ebrei, costoro spiegano il fenomeno alla luce della comune matrice semitica e alla luce della vicinanza geografica ( la Palestina ) che fu culla delle tre più grandi fedi. Dopotutto l’Islam, che è la più recente delle religioni monoteistiche, si propone come innovazione delle “rivelazioni” precedenti. Ad esempio di questa tesi, i teologi islamici citano il caso della Ka’ba, ossia quella costruzione cubica sita nella città di La Mecca , meta di milioni di pellegrini e fedeli. Tale costruzione venne già edificata, all’alba dei tempi, da Abramo, primo monoteista, e dopo la discesa di altri profeti (fra i quali Mosè e Gesù spiccherebbero in importanza) fu in ultimo Muhammad a ripristinare l’antica purezza della vera fede in un solo Dio. Egli liberò, con il suo trionfale ingresso a La Mecca , la Ka ’ba, dagli idoli, “amici” dell’unico Dio adorati dai politeisti. Riteniamo sia necessario premettere ciò, al fine di evidenziare che, quanto allo studioso occidentale appare come chiaro segno di contaminazione o sincretismo religioso, al dotto musulmano apparirà soltanto come un normale nesso cronologico, in forza del quale si spiegherebbe proprio la presenza di elementi ebraico-crisitiani nella “nuova fede” islamica, ed anche l’atteggiamento di quest’ultima ad inglobare e fare tesoro delle tradizioni precedenti.

Ebraismo [2] : E’ la religione degli ebrei, la più antica fra le fedi monoteistiche. La lingua italiana utilizza convenzionalmente il termine “ebraismo”, benché la religione abbracciata dagli ebrei sin dall'epoca che seguì la fine dell'esilio a Babilonia (VI secolo a.C.) venga definita scientificamente “giudaismo”. La tradizione ebraica considera la propria esperienza religiosa soprattutto come osservanza della Torah, la legge suprema che Dio ha donato al suo popolo, e come Halakah, una “via”, un percorso di fede e di vita da seguire scrupolosamente a livello personale e collettivo. Nato nella regione storica della Palestina, l'ebraismo è oggi diffuso in tutto il mondo: è praticato fuori d'Israele dalle comunità della diaspora, formatesi in seguito ai fenomeni di emigrazione che, spesso a causa di persecuzioni ed espulsioni, hanno caratterizzato l'intera storia ebraica. È comunque necessario puntualizzare il fatto che non tutti i 18 milioni di ebrei presenti nel mondo (dei quali 6.800.000 negli Stati Uniti, oltre 3.600.000 in Israele, quasi 2.000.000 in Russia, circa 1.500.000 in Europa) praticano la religione tradizionale, nell'ambito della quale non mancano poi orientamenti diversi, talora contrastanti. Caratteristica fondamentale dell'ebraismo è un monoteismo radicale, la fede in un unico Dio, assolutamente trascendente e creatore di un universo che governa provvidenzialmente dall'inizio dei tempi. Israele esprime la consapevolezza che Dio abbia “parlato” al suo popolo e, nel corso della storia, la Scrittura sacra, la Bibbia, documenta le tappe di questa rivelazione progressiva, interpretata dagli ebrei come un'alleanza, Berith, che Dio ha istituito con loro in quanto popolo eletto, chiamato a custodire gelosamente i precetti della legge. Il tetragramma sacro YHWH, יהוה esprime il nome di Dio, che probabilmente in origine si sarebbe dovuto pronunciare come Jaweh o Yahweh, parola riconducibile alla radice del verbo “essere”. Infatti in un passo fondamentale del libro dell'Esodo (3:14) Dio si rivela a Mosè proclamando: “Io sono colui che sono”, una proposizione che ha dato luogo a infinite discussioni in sede esegetica, ma il cui significato non appare comunque discosto dall'idea esprimibile anche con le parole: “Io sono colui che è”, nel senso che Dio definisce se stesso come entità reale e realtà suprema per eccellenza. La tradizione israelitica considera illecito pronunciare il nome di Dio. Questo, a motivo dell'uso tipico della scrittura ebraica di non registrare le vocali, compariva nella redazione antica della Bibbia in forma consonantica come YHWH, sostituito nella lettura con il termine più generico Adonai (Signore), in quanto soltanto il sommo sacerdote era autorizzato, una sola volta all'anno (durante la festa dello Yom Kippur), a pronunciare solennemente il nome ineffabile della divinità. Quando, nel VII secolo d.C., i dotti masoreti [3] si accinsero a dotare di vocali i libri biblici per renderne più sicura la tradizione testuale, inserirono nel tetragramma sacro le vocali di Adonai, dando luogo alla forma Yehowah che sta all'origine del nome Geova. Signore onnipotente e legislatore, Dio esige dal suo popolo un'assoluta fedeltà e un'obbedienza incondizionata alla sua legge, promulgata solennemente sul monte Sinai ai tempi dell'esodo e registrata compiutamente nei primi cinque libri della Bibbia, detti, per l'appunto, Torah, in ebraico legge, ai quali si affiancano i libri profetici e gli altri scritti canonici. La vicenda storica del popolo di Israele è interpretata dalla tradizione ebraica secondo una prospettiva teologica, come luogo privilegiato dell'intervento di Dio, che assiste costantemente il suo popolo assicurandogli la salvezza di fronte ai numerosi e potenti nemici, in virtù dell'alleanza stabilita per l'eternità. La sofferenza, elemento costante nella storia degli ebrei fin dall'antichità, soprattutto dopo la vicenda drammatica della deportazione a Babilonia nel 586 a .C., è la conseguenza tangibile dell'infedeltà del popolo eletto ai precetti della sua religione e ai doveri dell'alleanza. Dio è comunque sempre disposto a rinnovare l'alleanza, risollevando gli israeliti prostrati dall'oppressione e infondendo loro nuove speranze. La fede incrollabile nell'intervento liberatore di Dio e la coscienza della necessità della conversione al fine di ottenere la salvezza alimentano, già nei libri profetici della Bibbia, ma soprattutto nell'ebraismo della diaspora, la speranza nell'avvento di un Messia, l'uomo dalla missione escatologica che Dio invierà alla fine dei tempi per liberare definitivamente il suo popolo dall'esilio e dalla dominazione straniera e instaurare nella terra promessa il regno di pace e prosperità destinato alla stirpe eletta dei suoi fedeli.

Islam [4] : Religione fondata all’inizio del VII secolo d.C. da Maometto (in arabo محمد Muhammad) e praticata oggi da circa un miliardo di fedeli. La religione islamica è diffusa nel Medio Oriente, in Africa centro-settentrionale (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Mauritania, Senegal, Mali, Niger, Ciad, Sudan, Somalia), in Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e Asia centrale (Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan), nel Bangladesh, nelle Maldive, in Malaysia e in Indonesia, mentre in India costituisce una cospicua minoranza. In Europa è storicamente presente negli ex domini ottomani dei Balcani e soprattutto in Albania, dove è professata dal 70% della popolazione, e in Bosnia-Erzegovina (40%). Al fenomeno dell’immigrazione si deve la massiccia presenza di seguaci nell’Europa occidentale, soprattutto in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca. In Italia conta più di un milione di fedeli, per gran parte immigrati dall’Egitto, dal Marocco, dall’Albania e dal Senegal. Islam, اسلام, è parola araba che indica il concetto di sottomissione assoluta all’onnipotenza di Dio, il Dio unico e invisibile. L’Islam si caratterizza infatti come espressione di un monoteismo radicale, fin dalla formula fondamentale – “Non vi è altro Dio se non Iddio, e Maometto è il profeta di Dio” – recitata nel segno dell’appartenenza alla comunità degli adoratori dell’unico Dio. Il seguace dell’Islam è definito in italiano “musulmano”, termine coniato sulla base del persiano musliman, forma equivalente all’arabo muslimin, plurale di muslim; questa parola, che si ritrova anche nella lingua inglese, è utilizzata per indicare chi si considera sottomesso alla divinità unica e irraggiungibile nella sua dimensione trascendente. Tale concezione, rigorosamente monoteistica, è considerata dalla stessa tradizione islamica in continuità con il credo dell’ebraismo e del cristianesimo, religioni che costituirebbero le tappe fondamentali della rivelazione divina. Quest’ultima culminerebbe nella predicazione di Maometto, il profeta per eccellenza e l’ultimo dei latori della rivelazione di Dio dopo Abramo (in arabo Ibrahim), Mosè (Musa) e lo stesso Gesù (Isa). A tal proposito occorre precisare che la tradizione musulmana, riferendosi a Gesù come al più venerabile fra i profeti vissuti prima di Maometto, considera esclusivamente la sua natura umana. Maometto stesso non si attribuì mai una natura sovrumana, presentandosi unicamente come il profeta al quale Iddio avrebbe consegnato, per tramite dell’arcangelo Gabriele, la rivelazione divina destinata a essere custodita e venerata per sempre dai fedeli. La rivelazione è contenuta nel Corano, il libro sacro dettato da Dio all’umanità a completamento del messaggio parzialmente trasmesso sia dalle Scritture ebraiche sia dalle Scritture cristiane. Affiancando a questa concezione teologica un corpus normativo che regola la condotta dei fedeli interamente sottomessi al volere divino, l’Islam ambisce a identificare l’intera società con la comunità dei fedeli di Dio. A differenza del cristianesimo, il mondo musulmano non ha mai conosciuto un’autorità suprema ritenuta depositaria della verità in materia di fede e di etica. In assenza di una figura paragonabile a quella del papa nel cattolicesimo, la tradizione islamica assegna all’intera comunità dei fedeli il compito di custodire i precetti della religione e della retta condotta e accoglie con molte riserve il ruolo di custodi autorevoli dell’ortodossia attribuito in epoca moderna ai dotti dell’Università Al-Azhar del Cairo fra i sunniti, e alla gerarchia dei mullah iraniani fra gli sciiti. Vissuto nell’Arabia occidentale all’inizio del VII secolo d.C., Maometto predicò agli abitanti di quella terra, in maggioranza seguaci del politeismo, i dettami della nuova fede rivelatagli direttamente dall’unico Dio. Nonostante l’ostilità incontrata nella sua città natale, La Mecca, il profeta riuscì a dar vita, nella città oggi nota come Medina (antica Yathrib), a una comunità politico-religiosa che sarebbe riuscita, già prima del 632, anno della morte del fondatore, a imporre la propria autorità in tutta l’Arabia, nelle città come fra le tribù nomadi, elevando l’appartenenza all’Islam al ruolo di elemento di identificazione proto-nazionalista. L’istituzione del califfato, mirante a garantire la legittima successione di Maometto alla guida della nazione islamica, rappresentò l’ambito privilegiato per la trasmissione delle rivelazioni divine, comunicate oralmente dal profeta ai suoi discepoli più fidati e registrate in forma scritta già all’epoca del terzo califfo “ben diretto” Uthman (644-656) nelle 114 sure (capitoli) del Corano, accettate dall’Islam come definitive e immutabili. I passi del libro sacro costituirono ben presto il fondamento delle prescrizioni rituali ed etiche della comunità, che tuttavia accostò alle parole e alle azioni del profeta anche alcune pratiche non testimoniate dal Corano. Questa tradizione parallela, detta in arabo sunnah, rappresenta tuttora una fonte autorevole soprattutto per i sunniti, che vi scorgono un complemento indispensabile alla rivelazione divina. Il saldo governo dei califfi e la fede comune permisero i rapidi successi degli eserciti arabi. Questi ultimi, già prima del 650, sottomisero al dominio del califfato di Medina l’Egitto, la Siria , l’Iraq e le regioni occidentali della Persia; intorno al 660, con il passaggio del potere alla dinastia degli Omayyadi, prese avvio la seconda fase della diffusione dell’Islam, che penetrò nel vastissimo territorio compreso fra il Marocco e l’Afghanistan, in Spagna e nelle regioni dell’Asia centrale.

 
 

Punti di contatto ebraico-cristiano-musulmano:

La tradizione islamica, sottolineando il primato assoluto di Dio, gli attribuisce le parole rivelate a Maometto e registrate nel Corano, le cui pagine altro non sarebbero che copie di un archetipo celeste unico e immutabile. Dal canto suo, la ricerca storico-religiosa intende chiarire le origini del monoteismo islamico considerando primariamente l’influenza esercitata in Arabia dall’ebraismo e dal cristianesimo, in particolare nell’ambiente culturale del profeta, al quale sicuramente non erano ignote le Sacre Scritture degli ebrei e dei cristiani, salutati con rispetto come “popoli del libro [5] ”. Il Corano, infatti, fa riferimento a Mosè come al tramite della rivelazione divina contenuta nella Torah, mentre Gesù è presentato come il custode di un “vangelo” dettato dalla divinità. Annoverando Gesù tra i profeti, analogamente ai personaggi considerati tali dall’Antico Testamento, il Corano lo presenta come Masih, Messia, ma gli respinge l’attribuzione di una natura divina, pur condividendo con i Vangeli il racconto della sua nascita da una vergine e dei miracoli compiuti, per poi divergere dalla tradizione cristiana in merito alla crocifissione. Gesù sarebbe stato infatti direttamente innalzato al cielo da Dio senza conoscere l’umiliazione del supplizio, patito in realtà da un uomo reso simile a lui agli occhi dei suoi persecutori e degli stessi discepoli. Queste e altre asserzioni del Corano possono essere connesse più o meno precisamente con i racconti dei Vangeli apocrifi e con le dottrine delle differenti correnti ebraiche e cristiane diffuse, o comunque conosciute in qualche modo, in Arabia all’epoca di Maometto. E’ significativo inoltre che lo stesso Corano, presentando come fatto riprovevole la divisione dei cristiani in sette contrapposte l’una all’altra, abbia coscienza dei numerosi movimenti sviluppatisi in seno al cristianesimo dei primi secoli e in gran parte condannati come eretici. Dalla tradizione ebraico-cristiana inoltre derivano all’Islam anche una serie di figure tipiche della letteratura sacra. Ad esempio fra le creature di Dio, il Corano contempla, accanto agli angeli, la folta schiera dei Ğinn, gli antichi “spiritelli” che, venerati nel paganesimo preislamico come divinità minori, sono stati adottati dall’Islam sia come esseri benefici divenuti fedeli a Dio, sia come pericoloso esercito di demoni, tra i quali Iblīs è il minaccioso tentatore degli uomini. Per quanto concerne l’escatologia, la tradizione islamica prevede elementi già tipici della tradizione ebraico-cristiana: 1) un giudizio universale 2) l’idea della resurrezione, presentati ambedue nel Corano, come momenti culminanti della storia di questo mondo al termine di una serie di terrificanti cataclismi naturali (sure 81,82,84). 3) Un paradiso, espresso dal nome arabo جنة  “Ğannah [6], precluso agli infedeli e ai malvagi, destinati al fuoco dell’inferno. Esso viene descritto (sura 52) come un giardino di delizie popolato dai soli beati. Costoro riconosciuti tali dopo che le loro buone azioni, pesate su una bilancia [7] , si saranno rivelate più consistenti di quelle cattive, potranno godere della felicità dei sensi gustando cibi succulenti e allietandosi con la compagnia di incantevoli fanciulle. Ma se da un punto di vista escatologico l’Islam ha ereditato molto dalle religioni “sorelle”, per converso in ambito filosofico l’ebraismo a causa del contatto con I musulmani ha visto crescere, anche negli stessi ambienti rabbinici, l'interesse per la speculazione filosofica. Così, il pensiero dei maggiori filosofi greci, tradotti e commentati dai dotti musulmani in periodo medievale, fornì ben presto agli intellettuali ebrei uno strumento apologetico per dimostrare la ragionevolezza e la ricchezza profonda della loro fede. Tale ricerca di una conferma della tradizione antica sulla base di nuovi orientamenti speculativi, caratterizzò l'attività degli ebrei insediati nella Spagna islamica, i “sefarditi” da “Sefard”, nome arabo della Spagna. Inoltre questa forma di contatto ispirò l'opera di personaggi di grande rilievo come Maimonide, l'autore della “Guida dei perplessi” (1170), massimo filosofo ebreo che era solito scrivere in arabo. Che le tre grandi religioni monoteistiche siano nate nel medesimo ambiente semitico, è dato scontato. Bernard Lewis, professore emerito presso la Princeton University , nonché autorevole studioso ebreo della storia dell’Islam ha illustrato molto bene il rapporto fra Islam e Giudaismo. Ha affermato che per gran parte del Medioevo gli ebrei dell’Islam costituirono la parte più consistente e più attiva del popolo ebraico. Gli ebrei che vivevano nei paesi cristiani, cioè in Europa, erano una minoranza relativamente poco importante. Con poche eccezioni, tutto quanto di creativo e di significativo vi era nella vita ebraica accadeva nei paesi islamici. Le comunità ebraiche dell’Europa costituivano una sorta di appendice culturale degli ebrei che vivevano nel mondo islamico, di gran lunga più progredito e sofisticato, che si estendeva dalla Spagna musulmana a occidente fino all’Iraq, all’Iran e all’Asia centrale a oriente. E’ quindi lecito, dimostra lo studioso, parlare di una tradizione giudeo-islamica con contributi ebraici alla civiltà islamica e contributi islamici a quella ebraica. Altro punto di contatto fra le fedi, fu il dato linguistico. Le lingue delle rispettive liturgie, furono anzitutto lingue semitiche. Questo spiega ovviamente la somiglianza di certe parole del lessico sacro arabo ed ebraico, presenti anche nella religione cristiana. Altre volte invece il cristianesimo, a causa della sua diffusione nello spazio dell’Impero Romano, si è servita di termini derivanti dal campionario greco-latino e dalle rispettive religioni pagane. In ambito semitico ad esempio la parola per Dio è riconducibile sia in lingua araba che in lingua ebraica ad una comune radice proto-semitica [8] bilittera, trovandosi come  الة Ilah in arabo (propriamente “divinità” da cui poi Allah “la divinità per eccellenza, Iddio”) e Heloim אֱלוֹהִים, plurale maiestatis usato per Dio in sostituzione del Tetragramma sacro, nell’antico testamento. Altro termine liturgico comune alle tre grandi religioni monoteiste è l’esclamazione “Amen”. Le fonti teologiche islamiche difficilmente si soffermano ad evidenziare questo filo di continuità con le religioni dell’ebraismo e del cristianesimo, perché in verità il termine suddetto non ricorre neanche una volta nell’intero Corano. È però usanza recitarla a suggello della preghiera canonica, alla fine della “sura aprente”. L’Amen è sopravvissuto in modo orale nella religione islamica, laddove invece soprattutto nell’ebraismo ha un uso più diffuso. Il termine, di origine ebraica, è transitato infatti in molte altre lingue, in modo praticamente immutato. All’origine era un verbo, esprimente il significato di “stare o sopportare”. Mentre nell’uso dell’antico testamento, la parola Amen è diventata un’esclamazione indicante “convinzione di giustezza, rassegnazione e augurio per il futuro [9] ”. Ancora il termine arabo che indica la preghiera, ossia “salat” deriverebbe dal termine ebraico-aramaico “selota”, e anche la stessa pratica cultuale sarebbe per molti versi simile fra le due religioni. Da un punto di vista meramente storico, l’Islam ha convissuto fin dalla sua prima espansione con comunità sia di cristiani che di ebrei presenti al suo interno. La presenza di ebrei nella penisola araba infatti risale a tempi pre-cristiani [10] , come conseguenza della diaspora ebraica in seguito alla conquista di Gerusalemme ( 586 a .c.) del re babilonese Nabucodonosor. Sembra addirittura che prima dell’égira musulmana, la città di Medina (ancora Yathrib) sarebbe stata abitata in prevalenza da ebrei. Ciò detto è ovvio pensare che l’Islam abbia dovuto provvedere a legittimare in qualche modo lo status dei credenti non proni alla conversione alla nuova fede. Proprio il Corano è in effetti la fonte più autorevole per conoscere l’ebraismo preislamico. Se la repressione feroce, tanto nella città di La Mecca quanto in quella di Medina, si rivolse perlopiù ai Kuffar, ossia ai miscredenti, obbligati alla conversione, pena la morte, al contrario la legge musulmana ha sempre protetto i cristiani e gli ebrei, di più man mano che ci si spostava verso occidente e si penetrava nella casa della guerra. Punto di partenza del discorso sulla convivenza storica fra musulmani e rappresentati di altre comunità, è il fatto che l’Islam riconosce alle religioni monoteistiche che l’hanno preceduto nel tempo, una validità intrinseca, anzi tende a recuperarle e ad inglobarle in forme sincretistiche nella sua stessa dottrina. La storia dell’umanità è contrassegnata de epoche cicliche, ciascuna delle quali ha visto la discesa sulla terra di un libro rivelato attraverso un profeta. Tale messaggio (al-Kitāb) è valido per l’epoca e per la gente in questione: costoro sono soprannominate le “genti del libro”. Ovviamente un tale riconoscimento non implica affatto l’uguaglianza fra musulmani e non musulmani, dato che solo i primi grazie alla scelta compiuta in loro favore da Dio stesso, sono i portatori di un messaggio ancora valido. La teologia islamica infatti insiste molto sul concetto di “abrogato e abrogante”, ossia il principio esegetico in forza del quale il messaggio rivelato di una religione cronologicamente successiva, abroga quello precedente. Antico e nuovo testamento non saranno quindi “leggi” non più valide, al contrario molto autorevoli e sempre riconosciute, ma ormai obsolete e destinate ad essere rinnovate. Se il mondo “appartiene ai musulmani”, costoro hanno tuttavia obblighi precisi nei confronti delle altre comunità religiose, che possiedono a loro volta parte della Rivelazione. La III sura al verso 199 così recita [11] : “Ma certo anche fra la gente del libro v’è chi crede in Dio e in quello che è stato rivelato a voi e in quello che è stato rivelato a loro, umili di fronte a Dio […]. Costoro avranno mercede presso il Signore, ché Dio è rapido al conto”. È chiaro che a partire da questo comando nella storia, i musulmani hanno tentato di relazionarsi nel modo più pacifico possibile nei confronti dei ebrei e cristiani soprattutto. Ma esiste infatti un’alternativa alla conversione [12] : le genti del libro possiedono una “dhimma” ossia un patto di protezione da parte della comunità musulmana, senza limiti di tempo. Tale condizione contrattuale viene resa manifesta tramite il pagamento di una speciale imposta, la ğiziah, il cui versamento riconosceva ad ebrei e cristiani alcuni diritti fondamentali. Innanzitutto il mero diritto a professare liberamente la propria fede ed il riconoscimento di personalità. Inoltre il diritto a risiedere nella “casa dell’islam”, garanzie di pubbliche libertà e garanzie su diritti privati. Il contenuto della ğiziah cambiò verso una precisa forma di capitazione, esprimente proprio la soggezione dell’individuo, uso che ritroviamo presso tutte le comunità medievali in una situazione che vede più confessioni co-esistere accanto a quella dominante. Inoltre le disposizioni di protezione che investirono innanzitutto i cristiani e gli ebrei, vennero poi estese anche agli induisti e agli zoroastriani per mero motivo e interesse politico-economico. Già con i primi califfi ber diretti la capitazione era stata estesa ai sabei e agli zoroastriani in terre iraniche, sottomesse dal 641 d.c. ai nuovi conquistatori. La decisione ed il mero interesse trovavano però il benestare del Corano che alle sure II:62 e V:69 fa riferimento ai sabei e ai “magi”, non bene identificati. Questi pochi esempi dimostrano certamente che nel complesso, sembra essere stato l’islam, il sistema più elastico e ben disposto ad accogliere nel proprio seno confessioni e genti di diverso credo, piuttosto che le altre religioni (specie quella ebraica) nei confronti della civiltà musulmana.

Altre disposizioni Coraniche sul rapporto delle confessioni religiose

Oltre ai versetti coranici che istituiscono la capitazione e quindi un rapporto di riconoscimento di diritti ad ebrei e cristiani inizialmente, sotto tassazione, il testo sacro dell’Islam è ricco di altre utili informazioni circa questo argomento. Alla sura IX:29, la sura detta “del Pentimento” si legge: “Combattete coloro che non credono in Dio e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Dio e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati”. È un versetto non del tutto limpido ma che definisce con chiarezza una categoria di miscredenti che non vanno combattuti, a patto di pagare la sopraccitata ğiziyah.  Gli studiosi e i commentatori del Corano fanno riferimento al verso precedente, unitamente a quello contenuto nella sura II:256, in cui si legge “Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via, ben si distingue dall’errore”. Il brano suggerirebbe che la vera religione può lecitamente vivere e coesistere con forme false della fede. Ma per gli studiosi tradizionali questo asserto era sicura fonte di imbarazzo e bisognava disfarsene. I così detti “muğaddid”, ossia gli innovatori, i pensatori progressisti, al contrario ritengono che il versetto sia un autentico dono di Dio, una prova tangibile che l’Islam è una religione tollerante. Ciò spiega che il “versetto della non costrizione” è indicato come un grande principio, una vera colonna portante dell’Islam. Meno lusinghiero è il racconto su un certo numero di ebrei “violatori del sabbath” [13] . Alla sura II “ la Giovenca ”, si inizia a narrare, partendo dalla fine, una storia che è stato oggetto di analisi di coranisti e di commentatori, la storia di un gruppo di ebrei che avrebbero violato un comandamento sacro, ossia di santificare il sabbath, ordine che oltretutto deriva dal complesso di norme dell’antico testamento, dal momento che il giorno di riposo istituito presso i musulmani è il venerdì, giorno di preghiera comunitaria. A dire il vero la narrazione coranica non è affatto precisa ed ha avuto bisogno di una ricostruzione. Ciononostante così si legge nella sura II:65 “Avrete saputo di quelli dei vostri che trasgredirono il Sabato ai quali dicemmo: Siate scimmie reiette”. E altro riferimento si legge nella sura V:60, la sura della “Tavola imbandita”: Di': «Posso forse annunciarvi peggior ricompensa da parte di Dio? Coloro che Dio ha maledetto, che hanno destato la Sua collera e che ha trasformato in scimmie e porci, coloro che hanno adorato gli idoli, sono questi che hanno la condizione peggiore e sono i più lontani dalla retta via”. In ultimo dalla sura VII:166, la sura di “Al-A’rāf”, si apprende: “Quando poi per orgoglio si ribellarono a ciò che era stato loro vietato dicemmo loro: Siate scimmie reiette!. E il tuo Signore annunciò che avrebbe inviato contro di loro qualcuno che li avrebbe duramente castigati fino al Giorno della Resurrezione! In verità il tuo Signore è sollecito nel castigo, ma è anche perdonatore, misericordioso. Li dividemmo sulla terra in comunità diverse. Tra loro ci sono genti del bene e altre [che non lo sono]. Li mettemmo alla prova con prosperità e avversità, affinché ritornassero [sulla retta via]. Dopo di loro vennero altre generazioni che ereditarono la Scrittura. Sfruttarono i beni del mondo terreno […] Non avevano accettato il patto della Scrittura, secondo cui non avrebbero detto, su Dio, altro che la verità? Proprio loro che avevano studiato ciò che essa contiene? […] Quanto a coloro che si attengono saldamente al Libro ed eseguono l'orazione, certamente non trascuriamo la ricompensa a quelli che si emendano”. In questi versi sono raccolte praticamente tutte le informazioni su come la comunità musulmana doveva rivolgersi ai non-musulmani possessori di una scrittura. Leggendo al contrario la sura, ossia iniziando a commentare dalla fine notiamo che: 1) è presente il concetto del “patto” che Dio stabilisce con gli appartenenti a confessioni differenti, 2) dopo che “li dividemmo sulla terra in comunità diverse” e 3) dopo aver dato loro la possibilità di “accettare la Scrittura ”. Una volta che costoro si sono rifiutati Iddio non li ha puniti, data la sua inclinazione al perdono, dato che è “il perdonatore”, tranne che nel caso estremo che si trasgredisca ad un suo volere. Solo in questo caso vige la severa sentenza, 4) “siate scimmie reiette”. Tornando al modo in cui è stata allargata ed interpretata, sulla base di altre fonti, la storia dei violatori del sabbath, vale la pena di aggiungere che gli scienziati non concordano su dove porre la sede di questa comunità. Le ipotesi più accreditate vorrebbero che la cittadina colpita dalla severa sentenza fosse sul lago di Galilea (Tiberiade), altri ritengono che essa debba essere collocata sul Mar Rosso. Ma l’ubicazione preferita sarebbe Ayla, antica Elath, oggi il porto giordano di ‘Aqaba. Queste congetture scaturiscono dal fatto che in Cor. VII:163 si legge: “Chiedi loro a proposito della città sul mare in cui veniva trasgredito il sabato, [chiedi] dei pesci che salivano alla superficie nel giorno del sabato e che invece non affioravano negli altri giorni! Così li mettemmo alla prova, perché dimostrassero la loro empietà”. In altre parole l’episodio della violazione del sabato è una dura prova che Dio manda agli israeliti per testare il loro grado di empietà. Si tratta dell’ordine impartito al Profeta dell’Islam di interrogare gli ebrei su una storia che li metterà in imbarazzo. La storia non è ricca di particolari ma la lettura congiunta dei versi sopra e qui riportati, mostra come pochi cenni sono bastevoli per decifrarne il senso. Il punto è che alcuni pescatori della cittadella avevano violato la sacralità del sabato, pescando nel fiume. La conseguenza è che con le sole parole “siate scimmie abbiette” Iddio ha la facoltà di trasformare i colpevoli in animali e farli fuggire nella foresta. Di come siano andate veramente le vicende, il Corano non fornisce molti dati. I commentatori musulmani sanno però tutto in proposito, e forse neanche troppo strano è il fatto che i violatori puniti siano ovviamente degli ebrei. Il loro esempio è riportato come testimonianza della potenza di Dio e come fattore di dissuasione ad assumere un comportamento simile. In altre occasioni però l’incontro dei musulmani con gli ebrei è così edificante che i primi adottano i costumi dei secondi e “vivono alla maniera degli ebrei [14] ”. L’episodio è raccontato, al solito con altro grado di rarefazione ed indeterminatezza alla sura XXXVII:133- 8 in cui si legge: “in verità Lot era uno degli inviati: lo salvammo insieme con tutta la sua famiglia, eccetto una vecchia [che fu] tra coloro che restarono indietro, e gli altri li annientammo. Passate su di loro, il mattino e durante la notte. Non capite dunque? In verità Giona era uno degli inviati. Fuggì sulla nave stipata. Quando tirarono a sorte, fu colui che doveva essere gettato [in mare]. Lo inghiottì un pesce, mentre si rammaricava. Se non fosse stato uno di coloro che glorificano Dio, sarebbe rimasto nel suo ventre fino al Giorno della Resurrezione”. Nella seconda parte dei versi presi a campione, si narra del famoso episodio di Giona nel ventre della balena, inteso a dimostrare la bontà di Dio che non si dimenticò di lui ma lo trasse fuori dal ventre del mammifero. Nella prima parte invece si fa allusione ad una storia che è stata identificata alla luce di riferimenti tratti da Sozomeo, storico cristiano del V secolo. La storia probabilmente è quella narrata in Genesi 19, circa la distruzione di Sodoma e Gomorra. In una regione della Palestina un gruppo di arabi, chiamati da Sozomeo “saraceni” sarebbero entrati in contatto, dopo la distruzione delle due città peccaminose, con un gruppo di ebrei e grazie ad essi avrebbero riesumato le proprie comuni discendenze dal figlio di Abramo, ossia da Ismaele. In segno di gratitudine gli arabi avrebbero preso a vivere alla maniera degli israeliti e coltivarono questa usanza per diversi secoli. La narrazione coranica, incrociata alla fonte di Sozomeo, ci riporta ad una fase sicuramente pre-islamica. In quel preciso momento cominciò ad accumularsi del materiale coranico (poi confluito nella sura di cui sopra), grazie al contatto con i popoli vicini, verosimilmente ebrei, che avrebbero così lasciato un’orma indelebile nel testo più importante dell’Islam [15] . Lo status giuridico degli ebrei in terra d’Islam è però regolato da un’altra disposizione tratta dal Libro, questa volta dalla sura V:13, in essa si legge: “Iddio accettò il Patto dei Figli di Israele e suscitò da loro dodici capi. Iddio disse: “Sarò con voi, purché eseguiate l'orazione e paghiate la decima e crediate nei Miei messaggeri, li onoriate e facciate un bel prestito a Dio. Allora cancellerò i vostri peccati e vi farò entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli. Chi di voi, dopo tutto ciò, sarà miscredente, si allontana dalla retta  via”. Ma essi ruppero l'alleanza e Noi li maledicemmo e indurimmo i loro cuori: stravolgono il senso delle parole e dimenticano gran parte di quello che è stato loro rivelato. Non cesserai di scoprire tradimenti da parte loro, eccetto alcuni. Sii indulgente con loro e dimentica. Che Iddio ama i magnanimi”. Questo è il primo luogo in cui ricorre il termine di “patto” a regolare i rapporti fra Dio e la comunità islamica e quella degli ebrei, oltre alla nota della divisione dei secondi in dodici tribù. Ciò che Dio richiede affinché il patto venga onorato è il solo rispetto dei cinque pilastri dell’Islam [16] , oltre ad una buona dose di rispetto per i nuovi profeti. E a riprova che anche Iddio intende rispettare i patti, poco più avanti si dice che: “Coloro che credono, i Giudei, i Sabei o i Nazareni e chiunque creda in Dio e nell'Ultimo Giorno e compia il bene, non avranno niente da temere e non saranno afflitti”. Infine nel lungo elenco di ricordi e memorie citato dal verso 47 al vero 86 della sura II, sono ripercorse varie vicende bibliche della storia degli ebrei, dalla persecuzione di Faraone alla fuga attraverso il mar Rosso, o ancora dell’idolatria del Vitello d’oro. A mo’ di esempio si legge: “E [ricordate] quando vi abbiamo liberato dalla gente di Faraone che vi infliggeva le torture più atroci! Sgozzavano i vostri figli e lasciavano in vita le vostre femmine. In ciò vi fu un'immensa prova da [parte del] vostro Signore. E quando abbiamo diviso il mare per voi, quindi vi abbiamo tratti in salvo e abbiamo annegato la gente di Faraone, mentre voi stavate a guardare”. Ancora successivamente: “E quando stabilimmo con Mosè [un patto in] quaranta notti. E voi vi prendeste il Vitello e agiste da iniqui. Ma Noi vi perdonammo: forse ne sareste stati riconoscenti”.

Conclusioni e sguardi alla contemporaneità

Il nostro studio ha avuto ad oggetto i momenti di incontro fra la religione islamica e quella giudaica, per linee generali, nel periodo storico della nascita dell’Islam (VII sec.) e nei secoli a seguire. Per quanto è stato possibile abbiamo fornito svariati esempi che dimostrano come il contatto fra le due fedi ha prodotto nella maggior parte dei casi dei prestiti dalla religione ebraica, più antica, a quella islamica, più recente. Da un punto di vista antropologico è lecito ritenere che l’Islam sia una rielaborazione originale (e dunque frutto di un sincretismo) di elementi pagani e preislamici e materiale “semitico”. Ma da un punto di vista meramente teologico, il dotto musulmano rifiuta tout court l’idea che la fede musulmana derivi da un processo di sincretismo. L’Islam si pone come prosecuzione del messaggio che Iddio ha voluto rivelare all’umanità. Né sincretismo o contatto, né superiorità o, peggio ancora, maggiore importanza dell’una fede nei confronti dell’altra. Semplicemente l’Islam è la “nuova fede” dal momento che è stata rivelata successivamente al Giudaismo e al Cristianesimo. Ciò detto, le fedi “trascorse” non sono da abolire o da sopprimere, ma semplicemente bisogna svecchiarle, fermo restando il diritto dei loro credenti di restare entro le proprie dottrine. Nei limiti di uno studio siffatto è stato descritto lo status “giuridico” delle genti ebraiche all’interno dello spazio geografico in cui ha finito per prevalere la religione islamica. Abbiamo inoltre riportato esempi di “rivelazione coranica” in merito al modo in cui Dio e di conseguenza i fedeli si relazionano agli ebrei, relazioni senza dubbio informate a criteri di accoglienza e liberalità. Le incrinature più significative nell’equilibrio tra le confessioni religiose si ebbero a partire dal XX e XXI secolo. Così nel corso dell’ottocento si verificarono i primi scontri a carattere etnico religioso (Libano 1860), insieme a fenomeni di genocidio (come quello degli Armeni) o di scambio di popolazione fra Turchia e Grecia. Prima di eventi del genere, possiamo assolutamente ritenere infondata l’accusa di antisemitismo o di antiebraismo mossa all’Islam già verso la fine dell’ottocento. È importante ribadire che l’Islam non ha mai creato un “mito ebraico” e quindi sia sempre stato esente da forme di repressione ai danni degli ebrei. Ovviamente il panorama è mutato nel 1917, allorquando il ministro britannico degli affari esteri, Lord A. Balfour si dichiarò favorevole all’edificio di una national home ebraica in Palestina, con le conseguenze che ancor oggi si susseguono. Oltre a ciò l’acuirsi di idee antisemite si è propagato, come è noto a seguito della “shoa” ebraica da parte del Nazismo, e con la creazione di uno stato sionista in Palestina nel 1948 e le successive immigrazioni di ebrei Sefraditi, Askenaziti e Falasha. Ma a proposito degli scontri tra ebrei e musulmani prodotti in tali casi, sarebbe più corretto parlare, giacché la questione si proietta su di un piano soprattutto politico, come di correnti anti-sioniste nate e cresciute in seno all’Islam, e non anche di mito antisemita che è fenomeno tutto occidentale e cristiano [17] .

 
 

Bibliografia

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Bausani A., Il Corano, Milano, 1997.

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Nelson P. C., Word Studies in Biblical Hebrew, Aramaic, Greek and Latin, Oklahoma , 1941.

Vercellin G., Istituzioni del Mondo Musulmano, Torino, 2002.

[1]Traggo la definizione del termine da C. Scott Littleton, Syncretism, in AA. VV., New Dictionary of History of Ideas, Los Angeles, 2005, p. 2288.

[2]G. Filoramo, a cura di, Storia delle religioni- Ebraismo, Roma-Bari, 2005. 

[3]I dotti che curarono le prime redazioni dell’antico testamento in un periodo di diversi secoli dell’alto evomedio.

[4]A. Bausani, Islam, Milano, 1999.

[5]In arabo ahl al-kitāb, ossia genti del libro (rivelato).

[6]La parola “Ğannah” deriva dall’espressione ebraica Gan Eden, giardino dell’Eden.

[7]Balkafiyyah ossia la bilancia escatologica che peserà le anime dei pii e quelle dei dannati.

[8]L’antichissima radice semitica è *‘-l  si ritrova anche nel semitico nord-occidentale come ‘el e nell’accadico come ilu. In tutte le lingue semitiche ha espresso l’idea generale di “essere potente, forte”.

[9]P. C. Nelson, Word Studies in Biblical Hebrew, Aramaic, Greek and Latin, Oklahoma, 1941, p.17.

[10]H. Bobzin, Maometto, Torino, 2002, pp. 50-52.

[11]Faccio riferimento a: A. Bausani, Il Corano, Milano, 1997.

[12]G. Vercellin, Istituzioni del Mondo Musulmano, Torino, 2002, pp. 30-32.

[13]M. Cook, Il Corano, Torino, 2000, pp. 104-105.

[14]M. Cook, ibidem, pp. 146-147.

[15]Questa è una delle teorie presenti in M. Cook, circa il processo di formazione del Corano, inteso come mero esempio di letteratura sacra. Ovviamente questa ipotesi è improponibile per il dotto musulmano, per il quale il Corano è parola di Dio discesa sulla terra per il tramite di Maometto [N.d.a.]

[16]L’elemosina rituale, la preghiera canonica, il pellegrinaggio ai luoghi santi, il digiuno di Ramadan, la testimonianza di fede in un Dio unico [N.d.a.].

[17]G. Vercellin, Istituzioni del Mondo Musulmano, Torino, 2002, pp. 40-41.

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