I cattolici e la democrazia |
|||||||
Dionigi card. Tettamanzi Arcivescovo di Milano |
|||||||
|
|||||||
|
|||||||
Penso che non sia facile affrontare in modo preciso e sintetico la questione “cattolici e democrazia”. Peraltro, occorrerebbe affrontare contestualmente anche l’altro grande capitolo, che potremmo intitolare “cattolici e politica”. Se ora ci limitiamo al primo, siamo però consapevoli che, per una sua completa trattazione, dovremmo affrontare anche il secondo. La politica, infatti, è e resta lo strumento fondamentale per costruire la democrazia. Non c’è democrazia senza politica. Non basta, però, una politica qualsiasi. Occorre una politica veramente dedita al bene comune. E ciò è possibile solo se ci si preoccupa anche della “qualità” dell’agire politico e, dunque, si mette davvero in atto una politica di qualità. Non c’è democrazia senza politicaPartiamo da qui per dire subito che democrazia e politica sono “necessarie”. Lo sono tanto più in un mondo dove la democrazia tradizionale è messa in crisi dai “nuovi poteri” e dove “nuovi scenari” rendono più difficili l’azione politica e il perseguimento della democrazia. Così leggiamo nell’enciclica Centesimus annus del 1991: «La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno» (n. 46). Questa è l’affermazione dell’Enciclica. Ma qual è, oggi in particolare, la situazione reale? Quella che oggi noi viviamo è democrazia autentica? Dovremmo chiederci se è reale tale possibilità di «partecipazione dei cittadini» e se il potere da «controllare» sta tutto nelle mani di chi governa o non sta sempre più spesso altrove. Eppure la partecipazione dei singoli e dei popoli alle decisioni che li riguardano risulta fondamentale e irrinunciabile perché ci possano essere progresso, sviluppo e pace. Il
prevalere o, peggio ancora, l’assolutizzazione del potere finanziario,
tecnocratico e mediatico – che spesso esprimono e concorrono a consolidare
una concezione culturale distorta, se non errata, dell’uomo e della società
–, come pure il prevalere del potere di alcune indebite oligarchie minacciano
la democrazia, rinnegano la verità dell’uomo, creano ingiustizia, spengono
la solidarietà, riducono la libertà, limitano le possibilità di tutti,
feriscono il bene comune. Era
questo il rischio
che già prevedeva e denunciava Pio XII nel suo Radiomessaggio
natalizio del
1944.
«Sorgerà – così scrive – il pericolo che l’egoismo del dominio
e degli interessi prevalga sulle esigenze essenziali della morale politica
e sociale, e che le vane apparenze di una democrazia di pura forma servano
spesso come di maschera a quanto vi è in realtà di meno democratico»[1]. In
questo scenario, emerge una volta di più l’irrinunciabile necessità di
affermare,
salvaguardare e realizzare il “primato della politica”,
di una politica – ovviamente – degna
di questo nome.
È principalmente compito della politica – un compito oggi faticoso
e complesso – ricostituire
e mantenere una democrazia reale e sostanziale,
una democrazia cioè che, oltre ad essere un “metodo”, si presenta ed è
riconosciuta come un valore decisivo per esprimere la stima, l’apprezzamento,
il giudizio di verità e di bene sull’uomo. Mi
pare che torni di grande attualità, a tale proposito, la domanda
cruda e provocatoria che Maritain così esprimeva nel 1949: «Il
popolo deve essere risvegliato oppure utilizzato? Dev’essere risvegliato
come fatto di uomini, o frustato e trascinato come il bestiame?»[2].
Anche
oggi, dopo decenni di riconquistata democrazia, c’è da chiederci con estrema
libertà e onestà: “Dei
nostri simili pensiamo che si tratti di uomini o di bestiame?”. E ancora:
“È possibile rendere vera e dare consistenza reale all’affermazione
della Centesimus
annus?”.
Più concretamente: “Noi, oggi, – nel nostro Paese, in Europa e a livello
internazionale – possiamo «controllare» i nostri governanti? E, per la
precisione e andando al di là di una visione superficiale e scontata della
realtà, chi sono davvero i nostri governanti?”. Si
tratta di domande quanto mai cruciali, che interpellano tutti noi cattolici
e ogni altro nostro concittadino. Sono domande da prendere in seria considerazione,
se non si vuole che quello della democrazia sia un discorso astratto,
avulso dalle vicende storiche che disegnano il volto concreto della nostra
democrazia oggi. La
prospettiva: «alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana» In
particolare, è
interpellata la coscienza del credente.
La fede cristiana, infatti, non è estranea né separata – tanto meno contrapposta
– alle problematiche sociali e politiche in generale. Nello specifico,
non può essere estranea o indifferente alla questione della democrazia,
considerata soprattutto nelle sue basi e nelle sue esigenze propriamente
antropologiche. Nell’attuale
situazione storica, la
fede cristiana è
chiamata a ricuperare, anzi a rilanciare la sua tipica e originale identità.
Essa è – e non può non essere – una fede
incarnata nella storia,
totalmente immersa nel mondo. E, nello stesso tempo, è testimonianza
libera e coraggiosa del Regno di Dio
e dei suoi valori. È
questa la
specifica missione della Chiesa
che – come leggiamo nella Gaudium
et spes
– «cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta insieme al mondo la
medesima sorte terrena ed è come il fermento e quasi l’anima della società
umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di
Dio» (n. 40). È questo il
compito che attende ogni cristiano,
che il Signore Gesù chiama a vivere nella storia come sale della terra
e luce del mondo (cfr. Matteo
5, 13-16). Quella
della Chiesa e dei cristiani, allora, è una
presenza
da vivere, insieme e inscindibilmente, nel
segno dell’incarnazione e della profezia. In
questo senso, il
Magistero sociale della Chiesa
– che si basa sul Vangelo di Cristo come annuncio del mistero di Dio e,
insieme, dell’uomo, della sua dignità personale e della sua vocazione
trascendente[3]
– ha detto molto e in modo molto articolato. Desidero
però fare una sottolineatura sulla quale riflettere. Tale Magistero
non va inteso solo come un
magistero “per” la comunità cristiana e
per tutti gli uomini di buona volontà. Più adeguatamente, nella sua elaborazione,
questo stesso Magistero fa tesoro delle riflessioni, dell’esperienza e
dell’apporto delle diverse componenti della comunità cristiana, in particolare
delle acquisizioni della teologia, degli studi scientifici promossi da
laici, dell’azione di associazioni e movimenti ecclesiali e di ispirazione
cristiana, delle concrete realizzazioni in campo sociale messe in atto
dai cristiani o con il loro concorso[4].
Dunque, in qualche modo, il Magistero trae lumi, sollecitazioni, concretizzazioni
e aperture sempre nuove
“dalla” comunità cristiana e
dalla sua vita. Più precisamente, trae tutto questo da quell’umana esperienza
che, illuminata dal Vangelo, innerva la vita della stessa comunità cristiana.
È, come dice esplicitamente il Concilio Vaticano II, un magistero
che nasce e viene elaborato «sub
luce Evangelii et humanae experientiae»[5].
Siamo
tutti “debitori” di tale esperienza e, nel medesimo tempo, di essa siamo
tutti attivamente “responsabili”. Potremmo aggiungere che, in quella umana
esperienza, stanno iscritti anche il realizzarsi della democrazia, la
sua manifestazione, il suo valore. Centralità
dell’uomo, per una democrazia partecipativa Qui
voglio parlare prevalentemente dell’aspetto positivo della democrazia,
anche se tutti siamo consapevoli che la sua attuazione storica presenta
anche tentazioni,
difetti e vizi,
come: la deriva collettivistica, quella populista, quella liberista, quella
relativistica; la distorsione derivante da una politica fatta prevalentemente
o solo di immagine; il rapporto talvolta distorto della democrazia con
la verità, dal momento che non sempre il consenso popolare decide in verità
e per la verità e che, addirittura, si ritiene che l’agnosticismo e il
relativismo siano i presupposti e i fondamenti più sicuri della democrazia
stessa[6].
Più
radicalmente e trasversalmente, tentazioni,
difetti e vizi
nel modo di dare corpo oggi alla democrazia derivano
da una riduttiva o, addirittura, falsa concezione dell’uomo, della sua
vita, della sua sessualità, della sua relazione con gli altri, con il
mondo e con Dio: derivano, cioè, da
una inadeguata o da una errata antropologia,
che impoverisce l’uomo o che, persino, lo distrugge. Sono
tutte questioni che lasciamo sullo sfondo, per concentrarci
invece sul
bene prezioso della democrazia
e su un modello di democrazia partecipativa. È,
quella di cui trattiamo, una democrazia in
cui
l’uomo
è veramente “al
centro”,
è anzi “il
centro”[7].
Lo è in termini insieme soggettivi e oggettivi. Quella dell’uomo, infatti,
è – e deve essere – una centralità
non
“nominale”, ma “reale”,
che comporta di “venerare” l’uomo, dal concepimento fino alla morte naturale,
nella sua irriducibile dignità personale e, quindi, nella sua struttura
unitaria di corpo e anima, nella sua relazionalità con gli altri e col
mondo e nel suo carattere trascendente, etico e religioso[8]. Ma
è
davvero
questa
la democrazia che oggi ci è dato di sperimentare?
Si
dà vera democrazia quando, ad esempio, le odierne applicazioni tecnologiche
– in particolare, le moderne e sofisticate biotecnologie –, invece di
rispettare, curare e migliorare la vita di ogni uomo, qualunque sia lo
stadio del suo sviluppo, la manipolano o, addirittura, la distruggono?
Come ci può essere vera democrazia, come una società può
avere basi solide, come è possibile costruire il bene comune, senza riconoscere
e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si sviluppano tutti
gli altri diritti inalienabili dell’essere umano[9]? È
vera democrazia quella in cui la differenza, la complementarietà e la
reciprocità sessuale dell’uomo e della donna non vengono riconosciute
e tutelate anche nel loro risvolto sociale e giuridico? Che
democrazia è quella in cui la cultura dominante e le stesse disposizioni
legislative non riconoscono e non tutelano adeguatamente – a livello sociale,
economico, lavorativo, fiscale e politico – la famiglia quale società
naturale fondata sul matrimonio – ossia su un rapporto stabile e duraturo
tra uomo e donna, aperto alla fecondità – o, addirittura, equiparano ad
essa altri tipi di rapporto e di convivenza che non possono vantare la
stessa rilevanza sociale e giuridica propria della famiglia? E
le domande potrebbero certamente aumentare a dismisura. Sono
tutte problematiche che ci mostrano come, per
un’autentica democrazia, è quanto mai decisiva la “questione antropologica”,
la questione della irriducibilità della persona umana al resto della natura
e della sua nativa e insopprimibile trascendenza. Quando tutto ciò
non viene gelosamente e fermamente salvaguardato, è la democrazia a farne
le spese, perché il primo a farne le spese è l’uomo stesso. E, quando
non si fonda sull’uomo e sulla sua dignità
– ed è questo un valore, anzi “il” valore più fondamentale o, meglio ancora,
il valore “fontale” rispetto a tutti gli altri valori, un valore tipicamente
“laico” e “non negoziabile” –, la
democrazia è irrimediabilmente destinata a morire.
E se anche si continua a parlare di democrazia e, in larga parte, si continua
a mantenerne in vita le procedure, essa è soltanto una maschera, un “sepolcro
imbiancato” che nasconde e custodisce i resti deturpati e inanimati dell’uomo,
di un uomo che, pur vivendo in società, non è parte attiva e responsabile
di questa società, non è – e non può essere – “partecipe del governo”
della società stessa. Perché
ci possa essere un’autentica democrazia partecipativa, occorre che – affondando
saldamente le radici in quella visione
personalistica dell’uomo e della società,
che anche la nostra Costituzione fa propria – siano salvaguardati quei
«due
diritti del cittadino,
che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro
espressione» e che
Pio XII così descriveva sessant’anni fa nel suo già citato Radiomessaggio
natalizio: «esprimere
il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non
essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato»[10].
Come
si vede, risultano estremamente importanti sia il mantenimento e l’irrobustimento
delle istituzioni democratiche, sia la salvaguardia e il rispetto di quelle
organizzazioni che liberamente i cittadini scelgono per partecipare in
modo attivo alla vita sociale. Le
istituzioni democratiche,
per essere vitali, devono
essere sganciate da un controllo che non sia,
appunto, democratico.
Non devono essere oppresse da poteri estranei, come quello delle concentrazioni
mediatiche o finanziarie. Telecrazia e plutocrazia non hanno nulla a che
vedere con la democrazia, la soffocano inesorabilmente e rovinosamente.
Di più, soffocano inesorabilmente e rovinosamente l’uomo stesso. Questi,
infatti, esce a pezzi da un’informazione monodiretta e martellante, da
chiunque essa venga promossa e attuata, e da una dinamica economica che
impone un mercato senza regole o con regole destinate a far crescere un
potere concentrato nelle mani di pochi. Una simile concentrazione del
potere si presenta, seppure in forme nuove, come un oligopolio, il quale,
oggi come ieri, non è alleato, ma nemico della democrazia. La
democrazia partecipativa ha
assoluto bisogno
di
tre fondamentali valori: la solidarietà,
la sussidiarietà
e la legalità.
In concreto, nessuna istituzione democratica può essere modificata,
piegata, asservita per interessi di parte, al di fuori di una prospettiva
solidaristica; al di fuori di una prospettiva rispettosa delle capacità
e delle possibilità di intervento di cittadini e soggetti che si integrano
fra loro e si completano per conseguire l’obiettivo del bene comune; al
di fuori di una prospettiva di legalità limpida e forte. Senza
legalità non c’è Stato e senza Stato non c’è democrazia! I
cattolici sono chiamati a stare in prima linea nell’affrontare quella
difficile battaglia di frontiera che è il rispetto della legalità nelle
piccole e grandi cose[11].
Sono chiamati a concorrere
alla rinascita della coscienza morale e civile del nostro Paese.
Che la democrazia viva o muoia, illanguidisca o si irrobustisca dipende
da questo preciso impegno etico, dipende dal fatto che ci prendiamo convintamene
e seriamente a cuore una responsabilità che è decisiva per il presente
e il futuro del Paese. Risuona
ancora oggi quanto mai attuale e impegnativo a questo proposito il monito
espresso da Giovanni Paolo II più di dieci anni fa agli Amministratori
pubblici della Campania: «Non v’è chi non veda l’urgenza di un grande
ricupero di moralità personale e sociale, di legalità. Sì, urge
un ricupero di legalità!… Da una restaurata moralità sociale a tutti i
livelli deriverà un nuovo senso di responsabilità nell’agire pubblico,
come pure un ampliamento dei luoghi di formazione sociale e un più motivato
impulso alle diverse forme di partecipazione e di volontariato»[12]. Non
c’è democrazia senza giustizia Ma
l’impegno
per la democrazia
non è un problema solo “interno”, non è questione solo italiana, è piuttosto
questione
internazionale,
così come la giustizia sociale, l’equa distribuzione delle risorse
e il principio universalistico su cui fondare lo Stato sociale non sono
faccende che riguardano solo i Paesi occidentali, come peraltro sottolinea
con chiarezza e in continuità il Magistero della Chiesa. In
un’era di globalizzazione – il più importante e pervasivo “nuovo scenario”
con cui abbiamo a che fare –, quelli ricordati sono temi centrali per
tutti i popoli, divengono domanda e anelito legittimi e sacrosanti di
un’umanità che non può essere tradita nell’attesa di “ciò
che le spetta” in forza del diritto e che non le può essere rubato
in nome del “diritto del più forte”. Proprio
qui, in un campo così vasto e complesso, urgono ancora di più la
democrazia e l’impegno per essa. È un impegno che chiama in causa
tutti, nessuno escluso. Chiama in causa, in modo del tutto particolare
e indilazionabile, la responsabilità di chi più ha o di chi – persona,
gruppo o popolo – più ha preso e usato. La
democrazia,
infatti, è
anche
parità
di accesso ai beni della terra per i singoli e per i popoli.
Mi sia lecito citare qui sant’Ambrogio, che nel suo trattato su “Naboth”
– parlando di Acab, re di Samaria, che si impossessò della vigna
di Nabot dopo averlo fatto uccidere – tra l’altro scrive: «La storia di
Nabot è antica per età, ma nel costume è quotidiana… Di Acab non ne è
nato uno solo; e, ciò che è peggio, Acab nasce ogni giorno e non
muore mai a questo mondo. Appena ne scompare uno, ne vengono fuori altri,
in gran numero, e sono più quelli che rubano che quelli che accettano
di rimetterci… La terra è stata creata come un bene comune per tutti,
per i ricchi e per i poveri… La natura non sa cosa siano i ricchi, lei
che genera tutti ugualmente poveri… La natura dunque non fa distinzioni
tra di noi quando nasciamo o quando moriamo: ci crea tutti uguali e tutti
ugualmente ci racchiude nel grembo di un sepolcro»[13]. In
proposito, indico semplicemente alcuni temi, tra i molti altri che si
potrebbero citare, che ritornano con frequenza e insistenza nel magistero
degli ultimi Pontefici, in particolare nella ricca e articolata serie
dei Messaggi di Paolo VI e di Giovanni Paolo II per l’annuale Giornata
Mondiale per la Pace. Sono temi
che chiedono di essere considerati con urgenza e che devono far parte
di
una “piccola”, ma non irrilevante, agenda politica,
che anche i cattolici devono sollecitare con tutte le loro forze e devono
concorrere a scrivere e ad affrontare. Eccoli: il debito non schiacci
il debitore; l’acceso all’acqua va garantito a tutti; i beni primari non
devono mancare a nessuno; lo sviluppo deve essere sostenibile; solo la
pace è garanzia per lo sviluppo; non c’è pace senza giustizia; non c’è
giustizia senza democrazia, così come non c’è democrazia senza
giustizia; l’economia è strumento per rimuovere le disparità e le disuguaglianze,
non per accrescerle; la conoscenza e la cultura sono essenziali per consentire
a tutti di capire, scegliere, “prendere parte”; i bambini di tutto il
mondo hanno diritto di giocare; va riaffermato e condiviso “un no deciso”
alla pena di morte, alle torture, ai maltrattamenti. Tutto
questo ha a che fare con la democrazia e ha bisogno della democrazia e
della sua forza etica e giuridica. La
democrazia: un
diritto e un bene da condividere solo con le vere vie della pace Diciamo
però subito che la
democrazia non si impone con la violenza.
Essa ha bisogno di coscientizzazione, di educazione, di esperienze libere,
di grande pazienza, di dialogo, di radicamento culturale. Ogni
cultura
e
ogni popolo,
poi, si
daranno liberamente le proprie istituzioni democratiche. Queste
stesse istituzioni
possono essere diverse
da popolo a popolo e possono variare con il mutare dei tempi e delle concrete
condizioni storiche. Ma devono sempre
essere a
servizio di una democrazia sostanziale,
oltre che formale. Ciò può avvenire quando queste stesse
istituzioni riconoscono, rispettano e promuovono ogni uomo nei suoi diritti
originari e inviolabili e ne sostengono la partecipazione alla vita sociale
e quando sanno coniugare adeguatamente gli imprescindibili valori della
solidarietà, della sussidiarietà e della legalità cui ho già fatto cenno. Sono
quegli stessi valori
che anche la nostra Costituzione riconosce e sancisce.
E noi cattolici – insieme con tutti coloro che hanno a cuore il vero bene
delle persone e del Paese –, senza chiusure preconcette, ma anche senza
tentennamenti, siamo chiamati a far sì che ogni
riforma istituzionale e costituzionale,
da qualunque parte venga promossa, sia realizzata con il concorso e la
condivisione più ampia di tutte le diverse forze politiche, sociali e
culturali e, soprattutto, non
disattenda mai questi valori,
ma piuttosto li rispetti, li promuova e li garantisca sempre di più. Sappiamo
che oggi – in un mondo sempre più globalizzato, nel quale sono presenti
e convivono, talvolta a fatica, diverse culture – si discute spesso sulla
esportabilità
– o,
meglio, sulla non
esportabilità
– della
democrazia
in
culture non occidentali[14].
Nell’affrontare
questa problematica, è necessario lasciarci guidare dalla ferma convinzione
che democrazia
e
libertà
sono veri
diritti
di tutti gli uomini e di tutti i popoli e sono acquisizioni
storiche da
coltivare e diffondere. Il
problema vero, allora, non è se si tratti di valori esportabili o no.
È, piuttosto, quello del metodo
giusto
– un metodo cioè che sia rispettoso di ogni uomo, di ogni popolo, della
libertà e della democrazia stessa – con
cui promuovere democrazia e libertà. Come
già detto, non
può essere il
metodo della violenza:
questa, infatti, come peraltro la storia insegna, genera altra violenza[15].
Quello da seguire è, piuttosto
e doverosamente, il metodo proprio di chi – senza ingenuità, ma con determinazione
e coraggio – si impegna a porre
le basi per
una
risoluta azione di pace,
di una pace che – come leggiamo nella Pacem
in terris
di Giovanni XXIII – si fonda sui pilastri irrinunciabili della verità,
della giustizia, dell’amore e della libertà[16].
Finché
ciò non avviene, tutto ciò che è contrario alla democrazia
e alla libertà trova il suo più fertile e triste terreno di coltura. Infatti,
come già annotava Paolo VI nella Populorum
progressio,
«quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato
di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità,
e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla
vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza
simili ingiurie alla dignità umana» (n. 30). La
pace,
dunque, ha
bisogno
che, da parte di tutti – singoli e nazioni –, ci sia un’azione ferma e
perseverante per il bene comune. Ha bisogno, cioè, di
democrazia e di politica:
di una democrazia reale e di una politica di qualità. È questa
una condizione
imprescindibile
– anzi l’unica via vera, perché degna degli uomini e dei popoli – per
poter “condividere” con tutti il grande bene della democrazia e della
libertà
e perché esse diventino patrimonio comune e ricchezza per tutti. L’Europa,
a tale riguardo, in forza della sua stessa storia, ha un ruolo proprio
e specifico, che chiede di essere onorato. Proprio perché l’affermazione
dei valori democratici trova storicamente la propria culla nel nostro
Continente europeo, proprio a
questa nostra Europa è affidata la missione di essere “promotrice” di
democrazia, di libertà e di pace per tutti[17].
Di esserlo in modo democratico, ossia nel rispetto della soggettività
di ogni persona e di ogni popolo e nazione. È quanto ha ripetuto,
in continuità e con grande vigore, Giovanni Paolo II nei suoi innumerevoli
discorsi e interventi sull’Europa[18].
“Civilizzare”
il mondo, allora, è il compito di tutti e di ciascuno. Ma se è pretesa
arrogante e violenta, non è civiltà e non è indice di capacità democratica
e di rispetto della libertà. Nel
centenario della sua nascita, riascoltiamo, a questo proposito, quanto
scriveva Giorgio La Pira, un testimone quanto mai luminoso e appassionato
di democrazia, di libertà e di pace: «I
popoli non vogliono morire. Le città – preziosi documenti della rivelazione
di Dio e della civiltà e cultura dell’uomo – non vogliono morire. […]
Nessuno ha il diritto di distruggere le generazioni future e il patrimonio
civile, culturale e sociale delle generazioni future. Che
fare allora? Ed eccoci alla solita risposta: rendersi consapevoli della immensa portata di questa comune
imbattibile speranza dei popoli: intuirne la preziosità ed il valore:
decisamente eleggerla e pilotarla. Come?
Orientando verso la pace e le opere della pace – verso tutte le opere
della pace: dalla pace economica e sociale sino alla pace spirituale e
religiosa – gli sforzi fondamentali della vita privata e pubblica. Operando,
con fiducia, da portatori e mediatori di pace fra popoli e nazioni; e
costituendo fra essi, anziché una trincea di divisione e di amarezza,
un ponte di congiunzione e di speranza. Facendo
cioè nostro, con fiducia nell’aiuto di Dio, il grande precetto paolino:
Si
possibile est cum omnibus pacem habeatis»[19]. Globalizzare
la democrazia, per una cittadinanza universale In
un tempo come il nostro in cui si parla tanto spesso di globalizzazione,
accanto alle complesse e doverose analisi del fenomeno, dovremmo cominciare
ad immaginare democrazia
e libertà, giustizia e pace,
come valori
universali
da estendere e condividere con tutti, come valori da
globalizzare.
È
lo stesso fenomeno della globalizzazione ad esigerlo con forza, se vogliamo
che la globalizzazione sia umana e umanizzante. La sola interdipendenza
economica, lasciata a se stessa, sfocia inevitabilmente in nuove gravi
forme di ingiustizia, di disparità, di squilibrio economico, sociale e
politico[20].
Questa stessa interdipendenza chiede di diventare categoria morale e di
aprirsi, in tal modo, alla solidarietà, intesa – come scrive il Papa nella
Sollicitudo
rei socialis
– quale «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene
comune» (n. 38). Chiede, in altri termini, l’esercizio della politica,
di una
politica
attenta
alla “governance”,
che oggi non può più essere attuata solo a livello del singolo
Paese. Oggi
– affermava Giovanni Paolo II il 25 aprile 1997 alla Pontificia Accademia
delle Scienze Sociali – «le iniziative politiche dei diversi Paesi non
bastano; occorrono la “concertazione fra i grandi Paesi” e il consolidamento
di un ordine
democratico planetario
con istituzioni in cui “siano equamente rappresentati gli interessi della
grande famiglia umana” (Centesimus
annus,
58)» (n. 6). Ma
perché questo necessario «consolidamento di un ordine democratico planetario»
possa realizzarsi, occorre operare in modo serio e attivo per concorrere
a diffondere
una globalizzazione caratterizzata da istituzioni democratiche, dalla
difesa della democrazia, da pari opportunità per tutti i popoli e,
con esse, dalla
pace. Parte
integrante e costitutiva di una autentica cultura globalizzata è la “globalizzazione
della democrazia”,
ossia la diffusione di essa, delle istituzioni che la garantiscono, dei
valori che la sorreggono per una piena partecipazione delle donne e degli
uomini del mondo alle decisioni che li riguardano. E tutto questo nella
prospettiva di una cittadinanza universale. È
questa l’enorme sfida che appare sempre più evidente oggi, in un mondo
caratterizzato da un immenso “andare di terra in terra” da parte di tanti:
esuli o affamati, o desiderosi di migliorare la propria vita e quella
dei loro cari. Solo
quando l’intera società e le sue istituzioni – come sottolinea il Papa
nella sua esortazione dopo l’ultimo Sinodo dei Vescovi per l’Europa –
sapranno realizzare «un giusto ordine» e trovare «modi di convivenza rispettosi
di tutti, come pure della legalità, in un processo d’una integrazione
possibile»; solo quando, di fronte al fenomeno migratorio, si riuscirà
a «dare spazio a forme di intelligente e accogliente ospitalità» – che
non escludono, ma richiedono un doveroso «controllo dei flussi migratori
in considerazione delle esigenze del bene comune», il «rispetto delle
leggi» e, se necessario, «la ferma repressione degli abusi» –[21],
solo allora ognuno potrà sentirsi “a casa propria” dovunque si trovi,
più nessuno sarà trattato da straniero o verrà cacciato. E – proprio grazie
a tutto ciò – solo allora potrà nascere davvero il “cittadino
del mondo”. È,
questo, un cammino lungo e faticoso. Ma non può più essere rinviato.
Ma occorre percorrerlo dando vita a istituzioni democratiche internazionali
e condivise, in grado di costruire un mondo di “libertà, eguaglianza e
fraternità”, nel quale la casa, la scuola, la sanità, il lavoro, il riposo,
il sorriso, la bellezza del creato… siano diritti riconosciuti a tutti. In
questo cammino, il cristiano ha un ruolo originale e insostituibile da
svolgere. Come tale, infatti, egli appartiene, inscindibilmente e contemporaneamente,
a due città: a quella degli uomini e a quella di Dio. Nel suo stesso statuto
costitutivo, proprio per questa sua duplice paradossale appartenenza,
di cui parla l’antica lettera A
Diogneto[22],
il
cristiano è il “prototipo” del “cittadino del mondo”.
Egli, infatti, è straniero e non straniero; pellegrino e stanziale. Ma
deve essere pure profeta e testimone, artefice e pioniere di questa cittadinanza
universale, capace di un progetto che concretizzi l’idea e il sogno, perché
questi escano dal dominio dell’utopia ed entrino nei contorni della realtà. Il
contributo delle religioni alla democrazia Ho
usato apposta la parola “cristiano”, pensando al XVIII Incontro internazionale
e interreligioso per la pace che si è svolto recentemente nella mia Diocesi,
sul tema “Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo”. Perché
non prefiggersi un
comune impegno di tutti i cristiani anche
attorno
al valore della democrazia e della libertà? Non
sarebbe, questo, un modo di sostanziare quell’impegno per la carità che
è uno dei tratti distintivi di un ecumenismo vissuto? E,
se i cristiani di tutte le confessioni religiose uniti in questo comune
impegno riuscissero a coinvolgere
anche gli appartenenti alle grandi religioni del mondo,
non sarebbe questo un deciso passo in avanti per l’intera umanità? Possiamo
immaginare una grande iniziativa che dica tutto questo e sottolinei un
tale impegno, che deve diventare quotidiano, non sporadico, innervato
nella nostra vita e nella nostra storia? E,
per concludere, ai
cattolici,
in particolare, che
cosa resta ancora da fare per la democrazia?
Intanto,
bisogna ritornare
alla politica come “strumento principe” per la democrazia,
per costruire un bene comune che ha ormai dimensione planetaria[23].
Ricordiamoci, però, che neppure il bene comune può essere
“imposto”. La politica è piuttosto ricerca di un “consenso condiviso”,
dove ciascuno “può e deve prendere la parola” e dove ciascuno “può
e deve essere ascoltato, con rispetto”.
Questo – e non è piccola cosa! – fa parte dello stile democratico. È
già democrazia! Condizione
imprescindibile per “ritornare alla politica” e per “avere il gusto della
politica da cristiani” è quella di radicare
la vita in una forte spiritualità.
Ai fedeli laici, oggi più che mai, è chiesto di riscoprire la grandezza
e, insieme, la relatività della politica, di formarsi costantemente alla
luce della Dottrina sociale della Chiesa, di servire con competenza e
con generosità il bene comune, di interpretare e di vivere l’impegno politico
come un’autentica vocazione e come un modo loro proprio e peculiare di
essere testimoni di Gesù e missionari del suo Vangelo. Nello
stesso tempo, è
necessario
un
impegno a tutto campo.
Oltre che nella politica, ai cattolici è chiesto di impegnarsi concretamente
e attivamente nell’economia e nella finanza, nel mondo della scienza e
della tecnologia, nella comunicazione e nella cultura – in particolare
nella costante riflessione sull’uomo e sulla sua dignità e trascendenza
–, perché la democrazia e la libertà non vengano tradite, ma siano “sostanziali”
e vere, e perché, a propria volta, non sfigurino mai il vero volto della
persona umana. Ai cattolici, quindi, resta ancora da vivere un impegno
forte e risoluto per i “diritti” della democrazia, i diritti cioè di tutti
gli uomini, di tutto
l’uomo e di ogni
uomo! Soprattutto,
per dirla in breve, bisogna tornare
ad “occuparsi del mondo”,
a camminare fianco a fianco con credenti e non credenti per sostenere
la via della pace, della giustizia, della libertà e della democrazia. +
Dionigi card. Tettamanzi Arcivescovo
di Milano [1] Pio xii, Radiomessaggio natalizio 1944: AAS 37 (1945) 10. [2] Jacques Maritain, L’uomo e lo stato, Marietti 1820, Genova-Milano, 2003, p. 140. L’opera fu pubblicata nel 1951 ed è l’esito di alcune conferenze tenute nel 1949. [3] Cfr. Giovanni Paolo ii, Centesimus annus, nn. 5. 54-55. [4] Così è avvenuto già a partire dalla Rerum novarum, come ricorda Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, affermando che, nello scrivere l’enciclica, Leone XIII «si ispirava… all’insegnamento dei predecessori, nonché ai molti documenti episcopali, agli studi scientifici promossi da laici, all’azione di movimenti e associazioni cattoliche e alle concrete realizzazioni in campo sociale, che contraddistinsero la vita della Chiesa nella seconda metà del XIX secolo» (n. 4). [5] Cfr. Gaudium et spes, n. 46. [6] Così leggiamo, in proposito, nella Centesimus annus: «Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici» (n. 46). Cfr. anche Giovanni Paolo ii, Veritatis splendor, n. 101. [7] «La Chiesa – leggiamo in un recente documento della Santa Sede – è consapevole che la via della democrazia se, da una parte, esprime al meglio la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche, dall’altra si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona (cfr. Gaudium et spes, n. 25). Su questo principio l’impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno, perché altrimenti verrebbero meno la testimonianza della fede cristiana nel mondo e la unità e coerenza interiori dei fedeli stessi. La struttura democratica su cui uno Stato moderno intende costruirsi sarebbe alquanto fragile se non ponesse come suo fondamento la centralità della persona. È il rispetto della persona, peraltro, a rendere possibile la partecipazione democratica» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica [24 novembre 2002], n. 3). [8] Cfr. Gaudium et spes, nn. 14. 24. 76. [9] Cfr. Giovanni Paolo ii, Evangelium vitae, n. 101. [10] Pio xii, Radiomessaggio natalizio 1944: AAS 37 (1945) 7. [11] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana - Commissione ecclesiale Giustizia e pace, Nota pastorale Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, Roma, 4 ottobre 1991. [12] Giovanni Paolo ii, Discorso agli Amministratori pubblici della Campania, presso la sede dell’Aeritalia a Capodimonte, Napoli, 10 novembre 1990, in L’Osservatore Romano, 13 novembre 1990. [13] Sant’Ambrogio, Naboth, 1-5 passim. [14] Per un’idea sulla questione, cfr. Amartya Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano, 2004. [15] Cfr. Paolo vi, Populorum progressio, n. 31. [16] Cfr. Giovanni xxiii, Pacem in terris, nn. 18. 49-67. [17] Cfr. Giovanni Paolo ii, Ecclesia in Europa, nn. 111-112. [18] Cfr. Idem, Profezia per l’Europa, a cura di M. Spezzibottiani, Piemme, Casale Monferrato, 1999. [19] Giorgio La Pira, Le città sono vive, Editrice La Scuola, Brescia, 1978, pp. 126-127. [20] Più di cinquant’anni fa, così scriveva, con riflessioni quanto mai attuali anche oggi, Jacques Maritain: «Una interdipendenza essenzialmente economica, senza una corrispondente rielaborazione fondamentale delle strutture morali e politiche dell’esistenza umana, non può che imporre in virtù di una necessità materiale una interdipendenza politica parziale e frammentaria, che cresce pezzo per pezzo e viene accettata a malincuore, astiosamente, perché contrasta con la natura delle cose fintanto che le nazioni vivono sul presupposto della loro piena autonomia politica. Avendo come cornice e come sfondo questo presupposto della piena autonomia politica delle nazioni, una interdipendenza essenzialmente economica non può che esasperare i bisogni antagonisti e l’orgoglio delle nazioni… È così che noi oggi abbiamo il privilegio di assistere a un mondo che è sempre più unificato economicamente, e sempre più diviso dalle rivendicazioni patologiche degli opposti nazionalismi» (L’uomo e lo Stato, Marietti 1820, Genova-Milano, 2003, p. 188). [21] Giovanni Paolo ii, Ecclesia in Europa, nn. 100-101. [22] Cfr. A Diogneto V, 5. [23] È questo anche il preciso invito di Giovanni Paolo II, al termine del suo Messaggio per questa 44a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani: «I cattolici… devono anche riconsiderare l’importanza dell’impegno nei ruoli pubblici e istituzionali, in quegli ambienti in cui si formano decisioni collettive significative e in quello della politica, intesa nel senso alto del termine, come oggi è auspicato da molti. Non si può infatti dimenticare che sono proprie della vocazione del fedele laico la conoscenza e la messa in pratica della dottrina sociale della Chiesa e, quindi, anche la partecipazione alla vita politica del Paese, secondo i metodi e gli strumenti del sistema democratico» (n. 6).
Articolo ripubblicato da Arab.it in data 17 ottobre 2004
|
|||||||