Se ci accontentassimo degli schemi preconcetti condizionati dalle
dicotomie assurte nel secondo dopoguerra a valore di dogma - destra/sinistra,
razzismo/antirazzismo, colonialismo/terzomondismo eccetera - faticheremmo
davvero non poco a darci ragione di un complesso rapporto, tra luci
ed ombre, spesso contraddittorio, talvolta entusiasta e sincero, che
vide protagonisti personaggi e situazioni che animarono una tempèrie
per la quale, col senno di poi, è stata coniata da storici forse più
interessati a fornire materiale utile alla cronaca mediorientale che
al servizio della Verità, l'ingenerosa espressione di "filofascismo
arabo". Indubbiamente, sia la parte fascista che quella arabo-musulmana
- da considerare nella loro complessità e da non ridurre quindi a blocchi
monolitici - perseguivano obiettivi di fondo differenti, ma è sulla
via del loro raggiungimento che si trovarono a percorrere in compagnia
alcuni tratti di strada.
Se le delusioni generate dai
diktat della Conferenza della pace di Versailles (19 gennaio-28
giugno 1919) egemonizzata da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia
- che per l'Italia si tradussero nello smacco della cosiddetta
"vittoria mutilata" e per il mondo arabo-islamico sancirono il
tradimento delle aspirazioni all'indipendenza all'insegna dell'arabismo
e dell'Islàm - avevano già creato un primo terreno d'incontro
tra due realtà emergenti, fino a tutti gli anni Venti la politica
estera del fascismo è estremamente prudente, ma è a partire dai
primi anni del decennio successivo e specialmente dopo la guerra
d'Etiopia del 1935-36 (presentata ai musulmani come un riscatto
dalle vessazioni perpetrate ai loro danni dal Negus) che una strategia
mediterranea apertamente filo-islamica e perciò anti-francese
e anti-inglese (non si dimentichi che all'epoca sia il Maghreb
che il Mashreq arabi erano, secondo modalità differenti, sotto
il controllo anglo-francese) viene adottata con sempre maggiore
audacia: si dà un maggior impulso agli studi arabi e d'islamologia,
s'intensificano le iniziative di penetrazione culturale e ideologica
(la Fiera del Levante dal 1930, i Convegni a Roma degli studenti
asiatici del 1933 e del 1934, le pubblicazioni bilingue italiano-arabo
come Italia Musulmana, Mondo Arabo e L'Avvenire Arabo, le trasmissioni
in lingua araba di Radio Bari dal 1934) e si diffondono movimenti
ed organizzazioni arabe, |
"L'Avvenire arabo" giornale di
propaganda fascista |
soprattutto giovanili, fra cui ricordiamo
il Partito Giovane Egitto (Hizb Misr al-Fatâ) di Ahmad Husayn e le Falangi
Libanesi (al-Katâ'ib al-Lubnâniyya) di Pierre Jumayyûl tra i primi,
le Camicie Verdi (al-Qumsân al-Khadrâ') e Le Camicie Azzurre (al-Qumsân
az-Zarqâ'), entrambe egiziane, nonché varie associazioni scoutistiche
(al-Jawwâla), tra le seconde, che guardano, magari confusamente, al
fascismo come modello. In altri casi, invece, il motivo ispiratore era
costituito dal nazionalsocialismo: citiamo il Partito Nazionale Sociale
Siriano (al-Hizb al-Qawmî as-Sûrî al-Ijtimâ'î) di Antwân Sa'âda, le
Camicie di Ferro (al-Qumsân al-Hadîdiyya) a Damasco e ad Aleppo, l'irachena
al-Futuwwa, la cui etica traeva origine da quella degli ordini cavallereschi
del medioevo islamico. Ma è con gli ambienti delle corti delle entità
statali allora indipendenti (spesso solo formalmente) e non con fazioni
minoritarie ed estremiste che il fascismo, realisticamente, preferisce
intessere relazioni che in special modo sul piano commerciale determinano
posizioni di tutto rispetto: lo Yemen dell'imâm Yahyà è un protettorato
italiano di fatto (il Trattato d'amicizia e di relazioni economiche
del 1926 è rinnovato nel 1937) e buoni rapporti vengono stabiliti sia
con Re Fu'âd d'Egitto che con il sovrano dell'Iraq Faysal Ibn Husayn,
mentre a riprova dell'importanza degli apporti sanitario e tecnico-scientifico
italiani nel mondo arabo basti rammentare la missione medica permanente
presso l'imâm dello Yemen, l'Ospedale Italiano di 'Ammân, l'ambulatorio
di Jedda e l'assistenza aeronautica fornita ad Ibn Sa'ûd per tutti gli
anni Trenta.
Sul finire del decennio e con la guerra poi - quando a tutte
queste ottime relazioni gli Alleati impongono ricatti e pressioni -
il filo-islamismo del regime mussoliniano, fin lì improntato ad una
buona dose di pragmatismo, si fa, per così dire, ideologico (il fascismo
come "Islàm del XX secolo" è uno degli slogans coniati in quel clima),
ma è solo in sporadiche occasioni (ad esempio la fallita rivoluzione
irachena di Rashîd 'Âlî Al-Gaylânî e degli ufficiali del "Quadrato d'Oro"
appoggiata dall'Asse nell'aprile-maggio 1941) e comunque con scarsa
convinzione, che il fascismo e alcuni settori del mondo arabo-musulmano
desiderosi di liberarsi dal controllo franco-inglese riescono ad intraprendere
iniziative di un certo rilievo. Tra gli interlocutori arabi di spicco
che privilegiarono l'alleanza (più pragmatica che ideologica) tra il
fascismo e l'Islàm - mal riponendo tra l'altro le loro speranze in un
altrettanto netto rifiuto dell'entità sionista che lentamente ma inesorabilmente
andava costituendosi in Palestina - ricordiamo innanzitutto il Gran
muftî di Gerusalemme Hâjj Amîn al-Husaynî (1893-1974), fautore di un'impostazione
arabo-islamica - e non strettamente nazionale - della lotta di liberazione
del Dâr al-Islàm dalle ingerenze straniere, l'emiro druso Shakîb Arslân
(1869-1946), uno dei principali esponenti della corrente riformista
della salafiyya che a Ginevra dirigeva La Nation Arabe, Muhammad Iqbâl
(1877-1938), il padre spirituale del Pakistan, che ebbe parole d'elogio
per l'apertura nei confronti dell'Asia suggellata dal Duce con il discorso
del 18 marzo 1934 sull'espansione pacifica dell'Italia in Oriente.
Sbaglierebbe poi chi - astraendo dal contesto storico di questa
vicenda - individuasse nell'antisemitismo il collante di queste pur
vaghe simpatie reciproche: esso non è mai stato proprio né di arabi
né di musulmani e per il fascismo, fu il tardivo, minoritario e strumentale
frutto dell'alleanza politica con la Germania hitleriana, mentre è spesso
taciuto l'atteggiamento ostile che già dal '36 le principali organizzazioni
ebraiche dimostrarono nei confronti dell'Italia fascista ed è altresì
da ricordare che le comunità ebraiche tradizionalmente residenti in
Palestina convivevano pacificamente da tempo immemorabile sia con la
maggioranza araba musulmana che con la minoranza araba cristiana.
Che si trattasse di un filo-islamismo ondivago e contraddittorio
lo dimostra inoltre la "politica islamica" perseguita dal fascismo in
Libia, dove i nodi di quella che spesso appare una strategia volta più
che altro a contrastare l'egemonia franco-inglese nel Mediterraneo e
a gestire le popolazioni musulmane delle colonie (Libia, Eritrea, Dodecaneso,
poi Etiopia e infine Albania) vengono al pettine. Qui l'Islàm è sì incoraggiato
- fino al punto da rendere difficile la vita a chi scorse l'occasione
di una nuova evangelizzazione dell'Africa del Nord - con iniziative
volte al sostegno della vita religiosa locale (restauri e costruzioni
di moschee e di scuole coraniche, assistenza per i pellegrini alla Mecca,
apertura della Scuola Superiore di Cultura Islamica a Tripoli), ma è
soprattutto uno strumento d'ordine, progressivamente costretto alla
sfera privata in ottemperanza a quel "date a Cesare" che poco si adatta
all'intima essenza dell'Islàm. Anche il fascismo quindi - tra i cui
elementi costitutivi è da annoverarsi l'avversione a molti dei principi
dell'Illuminismo e ad un certo "progressismo" - in Colonia finì per
appiattirsi nella riproduzione della retorica del progresso (dello "sviluppo"
diremmo oggi) allestendo la versione in camicia nera della "missione
di civiltà", compreso l'imprescindibile bagaglio di "buone intenzioni"
insito in ogni impresa d'oltremare. Il viaggio di Mussolini in Libia
nel marzo 1937 - un "premio" per un popolo che con i contingenti di
ascari aveva dato un contribuito fondamentale alla conquista dell'Impero
-, culminato con la consegna al Duce della "spada dell'Islàm", aprì
in realtà una nuova e più massiccia fase d'insediamento di coloni italiani
sulla "Quarta sponda" ("i Ventimila" del 1938), evento che non poteva
non preoccupare i fautori dell'integrità etnica e culturale della Patria
araba (al-watan al-'arabî), in primis i contigui nazionalisti tunisini
del Neo-Dustûr di Habîb Burghîba, saltuariamente accostatisi al fascismo.
Un giudizio complessivo quindi, deve rilevare che l'azione filo-musulmana
del fascismo (o "filo-araba", quando l'elemento "razza" cominciò a pesare
di più in seguito all'avvicinamento alla Germania) si risolse soprattutto
in un'attività di propaganda e di disturbo (persino l'insurrezione palestinese
del 1937-39 non venne sostenuta con particolare entusiasmo) volta ad
accaparrarsi la simpatia delle popolazioni musulmane del Mediterraneo,
centro di gravità del "rinnovato Impero di Roma", le quali tuttavia
- deluse da chi si era mangiato tutte le promesse fatte a suo tempo
- scorsero in questi proclami la possibilità di riuscire a condurre
a buon fine la lotta di liberazione anticoloniale, poi proseguita nel
secondo dopoguerra dai campioni dei panarabismo (Jamâl 'abdel-Nâser
ed i suoi epigoni), tacciati di volta in volta - non a caso - dalla
propaganda dei loro avversari di "fascismo", se non addirittura additati
a nuovi "Hitler".
Ad ogni modo, leggendo i non pochi scritti editi nell'Italia
tra le due guerre mondiali nel clima della ricerca di un'"intesa con
l'Islàm", si può evincere quanto i toni della polemica (che è bene che
ci sia, per carità) sull'odierna presenza islamica in Italia e i timori
instillati da chi ha interesse ad agitare ad ogni piè sospinto lo spauracchio
dell'"integralismo islamico" siano lontani dall'impostazione data all'epoca
alla delicata e fondamentale questione dei rapporti tra l'Italia (e
l'Europa quindi) e l'Islàm, tra l'Occidente e l'Oriente.
La copertina del libro di
Enrico Galoppini |
Enrico Galoppini, Il fascismo e l'Islàm,
Edizioni All'Insegna del Veltro, Parma 2001.
pp. 166, € 12,91.
Viale Osacca, 13 - 43100 Parma -
Tel./ fax: 0521 290880;
E-Mail: insegnadelveltro1@tin.it |
La
famosa immagine del Duce con la spada dell'Islàm |
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