DIARIO DI UNA GIOVANE PALESTINESE
DAIR NETHAM
(RAMALLAH)
Correvo come una pazza senza sapere dove stessi andando. Era più
la foga della gente a impormi insensatamente le più svariate direzioni
che io stessa a poter decidere una specifica via di fuga. Mi spintonavano
facendomi ondeggiare come una barca a vela in pieno maremoto; e chi
cascava veniva travolto.
Improvvisamente Nader m'afferrò per un braccio proprio mentre stavo
per finire nella bocca del leone: un carro da combattimento stava venendo
verso di me con un cannone ad anima liscia e le due mitragliatrici laterali
puntate verso i civili inermi. Non ebbi neanche il tempo di ripararmi
che il primo colpo fece esplodere un'intera costruzione a poche centinaia
di metri. Il boato creò ancora più scompiglio. Non riuscivo a capire
niente. Il panico m'attanagliò lo stomaco e vomitai. Disteso ai miei
piedi vidi il cadavere di una donna e in ginocchio un bimbo in lacrime,
laido, che l'accarezzava. Mi guardai intorno, spaurita. Cercavo disperatamente
Nader, gli occhi mi strabuzzavano, lo avevo accanto ma non lo vedevo.
Ero sudata e sporca. Il commando armato avanzava minaccioso; ancora
qualche ragazzo gli lanciava contro pietre, dileguandosi poi dietro
alcune macerie.
Stavano cadendo bombe a grappolo anche a pochi chilometri di distanza.
Al posto delle gioiose abitazioni in pietra regnavano solo fumo e un
cancro maligno di disperazione. I lampeggianti delle ambulanze sembravano
fulmini in disperato soccorso; zigzagavano, cercando di evitare i proiettili
degli israeliani che, a loro volta, volevano impedire alle ambulanze
di raggiungere l'ospedale di Ramallah. I posti di blocco erano disposti
in modo tale da far sì che i mezzi di soccorso effettuassero degli inutili
dispendi di tempo, così che, quando riuscivano a raggiungere l'ospedale,
non si poteva fare più niente per la vittima.
Dall'altra parte della barricata i coloni inneggiavano alla distruzione
e alla morte, meschinamente scortati dalle truppe sioniste d'occupazione.
ESULE IN PATRIA
Vorrei essere una bambina, vorrei vedermi bambina, vorrei camminare
libera fra le vie della mia città; vorrei non avere un cuore, non avere
occhi, non avere un'anima perché i miei sentimenti non debbano disperdersi
nel vento freddo della paura e della solitudine, perché il mio sguardo
non si posi erroneamente sui corpi dei soldati che, pavoneggiandosi
con i loro fucili, si dilettano a farmi sussultare ogniqualvolta li
incontro.
Ma è ancora lungo il percorso a piedi da Betlemme. Mi palpita il cuore
quando passo fra gli uliveti in fiore: il profumo di quelle gemme bianche
è inebriante, tanto che non mi accorgo neppure di scorgere in lontananza
le mura della Città Santa. Yarabbi! A volte vorrei sparire nei meandri
delle mie paure, come l'omertà di certa gente…
Ma sono ancora bambina? Me lo chiedo perché il lasso di tempo dalla
pubertà ai miei attuali trentadue anni è trascorso così, con tanta amarezza,
da sentirne oggi quasi una puerile nostalgia.
Sono qui, con le scarpe ancora sporche di terra, e non sono neppure
sicura che mi faranno entrare nel cuore di Gerusalemme. Sono arrivata
fin qua di nascosto, profuga nella mia stessa patria, mercenaria nella
mia terra, e guardo da lontano, scruto con rabbia e dolore le mura di
una città, della mia città, la stessa cui non potrò accedere senza prima
esservi divenuta straniera.
Mi capita spesso di sedermi ai piedi di un ulivo, su una collinetta
a osservare quei piccoli uomini in uniforme, tanto orgogliosi quanto
indisponenti: fermano ogni mezzo che arriva, chiedono i documenti e,
se insoddisfatti, perquisiscono, spintonano, malmenano il malcapitato
che, se fortunato, riesce ad evitare la traduzione al distretto per
un tahkik, un interrogatorio.
E io osservo il tutto, protetta dalla lontananza in cui si svolgono
le scene, consolata dal fatto che da qui non mi vedrà nessuno.
A volte piango, lacrime di rabbia m'irrigano il volto come sottili sfregi
e penso, penso alle storie che mi racconta il nonno jed, descrivendomi
com'era la vita prima del '48, prima che una violenta "grandinata" devastasse
tutta la Palestina, prima che la nekba, la catastrofe, fosse compiuta.
Il nonno è ancora alto per la sua età; nonostante i suoi settantotto
anni il tempo non ha rattrappito i suoi arti che, al contrario, continuano
a essere elastici e ben disposti in quella figura slanciata e longilinea;
i capelli sono d'un ceruleo splendente e lo sguardo - occhi neri come
il petrolio che ha estratto nella sua gioventù in Arabia Saudita - ancora
così inquietante e minaccioso; ma nonostante ciò il cuore ne falsa l'imperturbabilità
e non riesce a mascherare un carattere dolce e affettuoso.
Emigrò a Medina perché non voleva trascorrere la sua vita a lavorare
la terra come il padre e il padre di suo padre, e quasi per orgoglio
partì da Gerusalemme appena giovincello, intorno agli anni '30; approfittando
della scoperta dell'oro nero, confidò in un "boom" economico che però
non avvenne prima della fine della Seconda guerra mondiale. La lontananza
dalla sua patria si faceva anno dopo anno sempre più dura e la sua insofferenza
sempre meno contenuta; dopo circa vent'anni fece ritorno dalla sua habiba,
la sua amante-compagna - come lui la definisce tutt'oggi - che lo accolse
benevolmente, così come una madre riabbraccia il figlio esule.
È meraviglioso sentire i suoi racconti, seguire dal profondo dell'anima
l'eccitazione e l'enfasi che mostra nel descrivere luoghi ed eventi
accaduti.
Crede ancora che nella terra palestinese vi sia qualcosa di magico:
come un fiore che nasce dalla roccia, i palestinesi l'hanno fertilizzata
e coltivata, e come il nero limo che si deposita sulle sponde del Nilo
dopo le inondazioni, il profumo di questo bene ferruginoso penetra acre
nelle narici di chi vi nasce e lo fa suo, per sempre . . . . . . . .
. .
LA PRIGIONIA
Quando tutte fummo scese dal furgoncino, ci misero in fila indiana e
lentamente c'incamminammo all'interno del "sarcofago" cementato. Mentre
camminavamo, le guardie tenevano lo sguardo fisso su di noi; quelle
a cui passavamo accanto, sghignazzavano e si picchiettavano il manganello
sui palmi, beandosi del fatto che avevano a disposizione nuovi "giullari"
con cui dilettarsi. Cercavo di non guardare in faccia nessuna di loro,
sapendo quanto questo le potesse irritare, ma quando un manganello rotolò
in fondo ai miei piedi non potei evitare di alzare lo sguardo e vedere
a chi fosse caduto. Una guardia robusta, quasi grassa, di carnagione
lattiginosa e capelli corvini riccioluti, raccolti in una disordinata
coda di cavallo, mi fissò e digrignò i denti. Se non avessi saputo che
nelle carceri femminili presidiano guardie donna, quel volto taurino
lo avrei potuto scambiare per uno maschile. Tra l'altro, pure un brutto
uomo. Sputò sul manganello, con buona mira, e mi obbligò a inginocchiarmi
e raccoglierlo con la bocca proprio sul punto in cui la sua saliva era
caduta. Obbedii. Quando feci per restituirglielo, mi si avvicinò, mi
sferrò un pugno nello stomaco e mi urlò che mai più avrei dovuto osare
darle qualcosa se prima non mi fossi accertata che fosse ben pulito
e rilucente. Passai il manganello più volte sul mio golf e glielo resi.
Scoppiò in una furente risata e se ne andò. Allontanandosi le sentii
digrignare uno "Stupida araba". Mi venne un urto di vomito e lacrime
di rabbia mi colmarono gli occhi, ma riuscii a trattenermi. Qualche
giorno più tardi scoprii di avere avuto il "piacere" di fare la conoscenza
del sergente maggiore Karen Sapir. Spalla destra del direttore del carcere
- quest'ultimo, unica figura maschile.
Ci condussero in una grande stanza e ci fecero spogliare. Credevo che
le scene dei prigionieri viste in TV fossero amplificazioni della realtà,
ma per la prima volta mi accorsi di quanto fossi in errore. Avevo i
piedi congelati e le unghie livide. Ci misero una accanto all'altra,
ci fecero aprire le gambe e ci ispezionarono. Una per una, ci passarono
le mani laide su tutto il corpo; con una torcia ci aprirono la vulva
e l'ano per appurare che non vi avessimo nascosto strumenti di fuga
o suicidio.
Oggi so che questi atti non vengono perpetrati per pura prassi di sicurezza,
ma rappresentano un'esclusiva attività ludica, diretta solo a umiliare
e spaventare l'individuo.
Dopo la perquisizione fummo condotte, ancora semisvestite, sporche e
tremolanti, alle celle. Era buio, non potevo farmi un'idea precisa della
dimensione dell'ambiente, che comunque immaginai molto piccolo; provai
a tastoni a percorrerne perimetralmente le pareti e dedussi che aveva
un'irregolare forma quadrangolare. Inciampai su un ostacolo, che realizzai
in seguito essere la latrina, e sbattei contro il lavabo. Ci imposero
il massimo silenzio. Sapevo di non essere sola in quella stanza. Un
altro essere brancolava come me, nella desolazione di quella notte infinita.
Quando dal cielo si squarciò uno spicchio di luna, facendosi spazio
tra la sagace preponderanza delle nubi, riuscii a visualizzare una figura
fantasmagorica. Eravamo a circa un metro di distanza, entrambe semiterrorizzate
e infreddolite. Due brande erano dislocate sui lati contrapposti della
cella. Mi diressi verso quella creduta a me più vicina e mi lasciai
scivolare sopra lentamente. Altrettanto fece la mia compagna, poiché
dopo qualche secondo sentii scricchiolare il metallo della rete dalla
parte opposta.
Lo stomaco mi si rivoltò dall'odore nauseante che emanava la coperta
sotto cui mi raggomitolai. Sembrava collezionasse gli odori più mostruosamente
schifosi esistenti in natura: vomito, escrementi e sangue marcio. Era
rigida come fosse fatta di carta vetrata. Nonostante questo non potei
fare a meno di tirarmela su fino all'estremità del naso; il freddo era
così paralizzante che mi sarebbe stato impossibile resistere senza niente
addosso. Ben presto le mie narici si assuefecero a quel miasma, e non
avrei più saputo distinguere un profumo di Cacharel dal letame di un
porcile per molto tempo.
Da una finestrella aperta, di una trentina di centimetri di altezza
e larghezza, potevo scorgere le nubi che andavano e venivano, a volte
liberando, a volte coprendo il bagliore lunare. Abbracciai le ginocchia
con entrambe le braccia e mi misi a piangere, cercando di trattenere
i singulti. Dall'altra parte non sentivo alcun movimento ed ero stranita,
quasi innervosita per il fatto che quella figura, ancora sconosciuta,
che tuttavia condivideva il mio stesso tormento e la mia struggente
disperazione, non si mostrasse vinta e che, al contrario, apparisse
tanto più forte di me. Imparai presto, però, che quell'iniziale senso
di invidia si sarebbe trasformato in puro istinto di sopravvivenza anche
per me.
Pensai a Nader, mi chiedevo se fosse ancora vivo e se mai avrei avuto
la possibilità di rivederlo; immaginai che forse lo avrei fatto, presto,
in un'altra vita. La fantasia prese il sopravvento e lentamente le lacrime
si gelarono sul mio volto e il freddo divenne talmente mio da cullarmi
nel sonno.
Una sirena ci svegliò tutte di soprassalto; credo fosse l'alba perché
dalla grata si riuscivano a intravedere flebili spiragli di luce. Notai
un'ombra, in piedi, al bordo più estremo del mio letto, che mi guardava.
Mi girai verso la branda opposta e vidi che era vuota. Scoprii con meraviglia,
ma anche con altrettanto piacere, chi fosse la mia compagna di cella:
si trattava della stessa donna che mi aveva aiutata il pomeriggio precedente,
sfidando la furia delle guardie. Nonostante il violento risveglio e
l'amara riscoperta della realtà, la sua immagine amichevole mi donò
un senso di fiducia.
Non sapevo neppure quando, ma probabilmente durante la notte le guardie
ci avevano gettato dalla guardiola delle tute da lavoro; erano di cotone
e certo non sarebbero state sufficienti per proteggerci dal freddo di
quelle notti gelide pregne della più amara disperazione, ma era comunque
meglio di niente.
LE SEVIZIE
La mia compagna mi sorrise e mi mostrò la porta della cella: era aperta.
Voci strozzate si udivano tutte attorno; mi erano penetrate nel cervello
come aculei. Forse era addirittura dalla notte precedente che lamenti
cospargevano ovunque la prigione di desolazione e inquietudine. Poi,
lei venne fatta uscire nel cortile esterno e io fui incappucciata e
portata in quelle che oggi definisco "catacombe". In realtà non hanno
niente in comune con quelle usate dagli antichi romani, ma il fatto
di ritrovarmi come una sepolta viva mi fece sentire come un martire
cristiano in occulto, rincorrendo, tra corridoi scavati come in un averno,
un'illusione di salvezza. Mai avrei creduto che tra la sabbia del deserto
potesse celarsi tanta disperazione. Man mano che procedevo, lamenti,
pianti e grida dominavano ovunque. E più avanzavo, più il mio terrore
cresceva. I passi rimbombavano, le braccia erano legate dietro la schiena.
Improvvisamente fui fermata, mi sciolsero le mani e mi sentii strappare
i vestiti di dosso. Il cappuccio continuava a serrarmi ogni possibilità
di vedere quello che mi avrebbero fatto e chi fosse l'aguzzino. Fui
sbattuta contro una parete, non avevo possibilità di muovermi perché
una mano fredda e ripugnante mi teneva premuto il petto e un'altra mi
cingeva la gola. Il mio respiro si fece sempre più affannoso, il panico
prese nuovamente il sopravvento finché gridai: "No!" con tutto il fiato.
Ansimavo, mi sembrava di morire, ma la morte sarebbe stata una liberazione,
e certo non era la libertà che loro volevano per gente come me. Col
tempo avrei anche compreso che una qualsiasi richiesta di aiuto, in
quel luogo, la si udiva solo ed esclusivamente come un incitamento a
perseguire il martirio che il vessatore stava compiendo. Mi sollevarono
entrambe le braccia e mi serrarono le mani a due manette inchiodate
alla parete. Mi tolsero il cappuccio, ma mi abbandonarono nell'oscurità
più avvilente.
Notai che i miei piedi penzolavano, distando dal pavimento solo pochi,
pochissimi millimetri. Dopo qualche ora mi resi conto dello scopo di
tale posizione. Avevo la sensazione di posare i piedi in terra, ma non
ci riuscivo. I miei nervi percepivano l'energia incrociata tra il pavimento
e il mio corpo, tanto che cercavo di allungarmi fino all'inverosimile
per tentare di soddisfare quel disperato senso di necessità. Presto
le piante dei piedi iniziarono a dolermi, a martellarmi e a informicolirsi.
Ben presto tutto il corpo si fece avvincere da questo tormento, e seguiva
la mente in un turbinio di dolore lancinante. Il campo energetico, che
mi attanagliava in una morsa sorprendentemente diabolica, mi stava annientando.
E il panico mi colse quando capii che non avevo la minima idea di quanto
tempo avrei dovuto trascorrere in quelle condizioni, e soprattutto,
per quale motivo stavo subendo tutto ciò. In genere si applicano torture
laddove si cerca di estorcere informazioni, ma nel mio caso, non solo
non mi era stato chiesto niente, ma neppure potevo serbare in me un
segreto tale da suscitare un simile interesse negli israeliani.
I lamenti, le voci divenute diafane delle altre seviziate, divennero
inverosimilmente stupide. Arrivai a non sentirle neppure più quando
anch'io iniziai a gridare e scongiurare di essere liberata. I miei piedi
si erano fatti di piombo e la circolazione era andata. Martellavano
e pulsavano come il ritmo del mio cuore; sentivo le vene gonfie, sarebbe
bastato niente per farmele scoppiare.
Fui relegata così, in quella posizione, per non so quanti giorni, senza
viveri, senza un essere vivente che passasse di lì, senza alcun contatto,
di nessun tipo, completamente nuda, al gelo delle notti desertiche e
accompagnata ritmicamente dai lamenti di altre disperate. Dopo la prima
notte, il cervello iniziò a dare i primi segni di cedimento . . . .
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