Estratto di un
discorso pronunciato a Ramallah il 25 marzo 2002 dal poeta palestinese
Mahmoud Darwich.
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Il poeta
palestinese Mahmoud Darwich
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"(
.) So che
i maestri della parola non hanno bisogno di servirsi della retorica
di fronte all'eloquenza del sangue. Ecco perché le nostre parole
saranno semplici quanto i nostri diritti: noi siamo nati su questa terra
e da questa terra. Non abbiamo conosciuto un'altra madre, non abbiamo
conosciuto una lingua diversa dalla sua.
Quando ci siamo resi conto che questa terra ha troppa storia e troppi
profeti, abbiamo anche capito che il pluralismo è uno spazio
che abbraccia con larghezza e non la cella di una prigione; abbiamo
capito che nessuno possiede il monopolio di una terra, di Dio, della
memoria.
Sappiamo anche che la storia non può etichettarsi né di
equità né di eleganza. Eppure, il nostro compito in quanto
umani, è di umanizzare questa storia di cui siamo, allo stesso
tempo, le vittime ed il risultato.
Non c'è niente di più manifesto della verità e
della legittimità palestinesi: questo paese è il nostro
e questa piccola parte di territorio è una parte della nostra
terra natale, una terra natale reale e non mitica.
Questa occupazione è un'occupazione straniera che non può
sfuggire all'accezione universale della parola occupazione, a prescindere
dal numero di titoli di diritto divino che invoca; Dio non è
proprietà personale di nessuno.
Abbiamo accettato le soluzioni politiche basate sulla condivisione della
vita su questo territorio, nel quadro di due stati per due popoli.
Noi ci limitiamo a reclamare il nostro diritto ad una vita normale all'interno
delle frontiere di uno stato indipendente, sulla terra occupata a partire
dal 1967 compresa Gerusalemme Est. Reclamiamo il nostro diritto ad una
soluzione imparziale del problema dei rifugiati, il nostro diritto alla
fine dell'insediamento nelle colonie.
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Dunya,
pochi giorni di vita, morta i giorni scorsi perché i soldati
israeliani non hanno permesso a unambulanza di superare
il posto di blocco e portarla in tempo allospedale
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Questa è la sola
via realista per la pace, la sola che metterà un termine al circolo
vizioso dei bagni di sangue.
Lo stato delle cose è di un'evidenza chiarissima: non si tratta
della lotta tra due esistenze, come vorrebbe far credere il governo
israeliano: o loro o noi. Il punto è chiudere un'occupazione.
La resistenza all'occupazione non è solo un diritto. E' un dovere
umano e nazionale, che fa passare da uno stato di schiavitù allo
stato di libertà.
Il cammino più corto per evitare altri disastri è quello
di accedere alla pace liberando i palestinesi dall'occupazione e gli
israeliani dall'illusione di poter esercitare il loro controllo su di
un altro popolo.
L'occupazione non si accontenta di privarci delle libertà più
elementari ma arriva al punto di privarci degli elementi essenziali
a condurre una vita umana dignitosa dichiarando guerra permanente ai
nostri corpi e ai nostri sogni, alle persone, alle abitazioni, agli
alberi, commettendo crimini di guerra. Non ci promette niente di più
dell'apartheid e della capacità delle sue spade di sconfiggere
le nostre anime.
Ma noi soffriamo di quel male incurabile che si chiama speranza. Speranza
di liberazione e di indipendenza. Speranza di una vita normale che non
ci veda né eroi né vittime. Speranza di vedere i nostri
figli andare a scuola senza pericolo. Speranza per le donne incinte
di dare alla luce un figlio vivo, in ospedale, e non un figlio nato
morto davanti ad un posto di blocco militare. Speranza che i nostri
poeti vedano la bellezza del colore rosso in una rosa piuttosto che
nel sangue. Speranza che questa terra ritrovi il suo nome originale:
Terra d'amore e di pace.
Grazie a chi porterà con noi il peso di questa speranza."
* di Mahmoud Darwhich
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