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I LAVORATORI IMMIGRATI: UNA RISORSA PER GENOVA
dott. Stefano Zara, Presidente Ponente Sviluppo

dott. Stefano Zara

Coordinatore del gruppo che ha curato la stesura del documento economico e sociale di Forum, di quel lungo e impegnativo lavoro serbo un piccolo rammarico: il non aver evidenziato al meglio - in quanto non sufficientemente approfondito nei sottogruppi - il concetto di "accoglienza".
Nelle bozze preparatorie si era pensato di inserire il principio di "Genova città aperta". Aperta al "nuovo", aperta agli "altri". Per quanto concerne questo secondo rapporto, scrivevamo testualmente: "riteniamo che il progresso della nostra città, in linea con le dinamiche della globalizzazione, passi attraverso un bagno di xenofilia:

  • sia verso "l'altro di passaggio", sviluppando orientamento all'accoglienza;
  • sia verso "l'altro che resta", sviluppando un reale orientamento all'integrazione.
  • Chiediamo alle Autorità locali di... creare condizioni per un pieno inserimento nella cittadinanza e nei circuiti del lavoro (a ogni livello) di "quelli che vengono per restare", vivere e lavorare nella nostra comunità. Una città che, in mancanza di un significativo processo di arricchimento demografico, resta a grave rischio di senescenza". Nella stesura definitiva questo passaggio è andato perduto. Visto che me ne si offre il destro, vorrei riprenderlo nello spazio che Genova Impresa dedica all'approfondimento delle tesi lanciate da Forum.
    i lavoratori immigrati: una risorsa per genova
    Il tema immigrazione lo si può trattare in molti modi. Ad esempio, facendo appello ai valori della solidarietà e del cosmopolitismo; magari ricordando come noi stessi, in un non troppo lontano passato, si sia vissuta la dolorosa condizione dell'emigrante (il vero inno genovese, .Ma se ghe pensu, che altro è se non il canto della nostalgia di un nostro concittadino, da tempo emigrato in America Latina?). lo preferisco seguire un approccio diverso. Cioè, un ragionamento che privilegia la logica fredda degli interessi e si articola in tre passaggi: la reale dimensione della "questione immigrazione" come questa venga affrontata dai vari paesi occidentali e - infine - che cosa, al proposito, convenga realmente a noi genovesi.

    Punto primo: il fenomeno dal punto di vista quantitativo e strutturale.
    Attorno al tema immigrazione si sta sviluppando una retorica che trova giustificazione nella crisi di sovranità che affligge gli Stati a seguito della globalizzazione economica: attraverso la drammatizzazione della "minaccia alle frontiere" si tende a realizzare una ri-nazionalizzazione in chiave propagandistica del discorso politico (con una contraddizione evidente: come combinare le spinte alla creazione di spazi economici senza frontiere e le spinte all'intensificazione dei controlli alle frontiere per tenere fuori immigrati e rifugiati?). Ma al di là delle drammatizzazioni, appunto retoriche, ci siamo domandati quali siano le vere cifre in gioco? I dati più recenti parlano di circa 120 milioni di immigrati nel mondo (stima che probabilmente - esclude i clandestini) e di circa 20 milioni di profughi e rifugiati (di cui solo il 30% ha trovato asilo nei paesi "ricchi"). Anche se incrementassimo le cifre ufficiali con ipotesi plausibili sul sommerso, i numeri ricavati non risulterebbero poi così inquietanti. Specie se rapportati a una popolazione mondiale che ormai si aggira sui 6 miliardi di individui. Ne consegue che la realtà smentisce l'immagine popolare (e la retorica politica) dell'invasione di una moltitudine di poveri che sommerge la nostra civiltà. Del resto, i recenti studi mettono in evidenza come i flussi migratori non derivino dalla sommatoria di casuali decisioni individuali ma siano altamente condizionati e strutturati secondo reti economiche, sociali ed etniche complesse (la vicenda ottocentesca dei liguri concentrati alla Boca e dei siciliani a Broccolino potrebbe confermarlo). Dunque, un grande problema geopolitico, indotto dal ridisegno degli assetti globali. Come reagiscono gli Stati (che, non dimentichiamolo, hanno partecipato alla costruzione del nuovo sistema economico)? In modi assai diversi: alcuni paesi, come la Germania, hanno politiche di naturalizzazione basate sullo jus sanguinis (sulla discendenza), altri, come la Francia, sullo jus soli (il luogo di nascita); Stati Uniti, Canadà e Svezia facilitano l'acquisizione della cittadinanza mentre il Giappone, con la legge sull'immigrazione del '90, si apre solo a categorie professionali qualificate (e possibilmente occidentali). In ogni caso, operano sulla scena anche le convenzioni internazionali sui diritti umani (a partire dalla "dichiarazione universale" dell'ONU, 1948) e l'attività quotidiana dei tribunali nel riempire i vuoti giuridici delle legislazioni nazionali in materia. Rendiamoci conto - allora - che tutte le categorie con cui affrontiamo l'argomento - immigrazione sono in stato di avanzata ristrutturazione proprio a livello mondiale. E veniamo a Genova.

    La nostra città, già dal medioevo, è cosmopolita e polietnica. Nel XVI secolo esisteva una moschea nell'area portuale e una parola-chiave per il nostro scalo marittimo, "darsena", ha radici arabe (dar senhhah, casa delle costruzioni). Crogiolo d'etnie, a partire dal trattato del Ninfeo del 1261, importiamo donne dal Mar Nero (che vengono tra noi come serve e balie per trasformarsi presto, stante la perenne penuria femminile, in spose e madri). Dal XIII secolo fino alle soglie del XX rileviamo un flusso ininterrotto di braccia bergamasche verso le attività portuali; già dai primi del 900, significative correnti di lavoratori del sud vengono intercettate dalle industrie pesanti del Ponente. Al dì là del cosmopolitismo insito nella vocazione economica mercantile, dietro queste dinamiche migratorie c'è sempre una ragione strutturale: i ricorrenti tracolli della natalità che determinano invecchiamento della popolazione indigena e fanno parlare di "costume malthusiano dei genovesi".
    Ancora una volta, l'odierna situazione demografica della città è drammatica e solo l'immigrazione può salvarci. Non si tratta di solidarietà ma di pure, lungimiranti, scelte di sopravvivenza economica e sviluppo. E' un falso ideologico pensare che esista un'antitesi tra disoccupazione (intellettuale-scolarizzata) e immigrazione (forza lavoro da professionalizzare). Le imprese liguri non trovano più la manodopera specializzata, necessaria per colmare i vuoti nei propri organici. Se continueranno a non trovarla aumenterà - contestualmente - la disoccupazione intellettuale in quanto si bloccheranno i meccanismi di produzione della ricchezza. Dunque, il dilemma sta tutto tra una gestione attiva della forza-lavoro immigrata (creando strutture di accoglienza, formazione e avviamento al lavoro) oppure - visto che il flusso non si arresterà comunque - il suo abbandono alla gestione malavitosa delle mafie albanesi e magrebine. Del resto, già esiste un insediamento di immigrati inserito nella città, specialmente nell'edilizia e nel servizio agli anziani. Sono una maggioranza ("non riconosciuta") rispetto alla minoranza ("riconosciuta") che pratica malversazioni e traffici illeciti. Quindi, un problema politico che impone effettive ed efficaci azioni di accompagnamento, da un lato, di vigilanza e repressione, dall'altro.

    Tenendo sempre presente quanto, all'inizio dell'anno, ha dichiarato non uno sfegatato terzomondista ma un prudentissimo grand commis , il Governatore di Bankitalia Fazio: "i lavoratori stranieri sono una risorsa primaria del paese". Lampanti i dati in proposito. Come quelli evidenziati, nel caso americano, dall'ultimo studio dell'Urban Institute di Washington (1996): gli immigrati portano 30 miliardi di dollari in tasse in più di quanto ricevono servizi.
    Nel nostro paese, la grande migrazione interna degli anni 50-60 è stata completamente metabolizzata e oggi le "maschere della milanesità" si chiamano Abatantuono e Celentano (pugliesi), Jannacci (campano). E' poi cosi terribile immaginare che la prossima generazione di imprenditori e manager genovesi sarà composta anche da persone con la pelle due tonalità più scure della nostra?

    Fino a questo punto del ragionamento, abbiamo evitato accuratamente il tema "razzismo".
    Lo accenniamo, in conclusione, facendo nostre le parole di un grande genovese, Luigi Luca Cavalli Sforza, uno dei più grandi genetisti viventi docente a Stanford: in pratica si può generalizzare dicendo che vi sono differenze, per quanto piccole, anche tra i villaggi vicini, ma che sono insignificanti; che aumentando la distanza geografica la distanza genetica cresce, ma rimane sempre insignificante rispetto alle distanze che si trovano tra gli individui di una popolazione (Luigi Luca Cavalli Sforza: Geni, popoli e lingue - Adelphi - 1996). Come dire: tutti coloro che apparentemente sono diversi sono in realtà eguali e tutti coloro che apparentemente sono eguali in realtà sono diversi. Ma queste conclusioni, ormai, sono ovvie.

    dott. Stefano Zara


    Articolo pubblicato sul bimestrale GENOVA IMPRESA I.P. N 2 - 1999


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