Possiamo vivere con l'Islam?
Il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni
laiche e cristiane.
di Jacques Neirynck e Tariq Ramadan
Titolo originale dell’opera: "Peut-on vivre avec l’ Islam"*
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Scheda introduttiva | Introduzione | Capitolo 1 | Capitolo 2 | Capitolo 3 | Capitolo 4 | Capitolo 5 | Capitolo 6 |
Capitolo 1 Una fede in Dio condivisa da tre religioni L'unità fondamentale delle tre religioni monoteiste. JACQUES NEIRYNCK. Preparando questi incontri mi è parso che ciò che unisce ebrei, cristiani e musulmani sia molto più forte di ciò che li separa. E ciò che li unisce è la fede in un solo Dio. Ma la cattiva conoscenza reciproca costituisce la regola piuttosto che l'eccezione. A titolo d'esempio quasi caricaturale, il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 sotto l'egida del Vaticano, è un grosso volume di settecento pagine dove si trovano riferimenti al giudaismo, all'ateismo, al materialismo ma nessuno all'islam che è semplicemente ignorato, come se questa non fosse la religione più diffusa nel mondo dopo il cristianesimo, come se non ci fosse alcun legame storico tra le due religioni. Non c'è neppure una sola citazione del Corano o del nome di Muhammad. Inutile ricordare che l'atteggiamento reciproco non è vero e che l'islam ha una grande venerazione per la persona di Gesù, abbondantemente citato nel Corano. All'inizio, il Dio unico sorge in seno alla liberazione dal politeismo, rappresentato dalle religioni tribali animiste che esistevano in Medio Oriente e che sono state soppiantate dai tre grandi monoteismi. L'affermazione di un Dio trascendente ed unico merita oggigiorno di essere ripetuta di fronte agli idoli moderni, che non sono più piccole divinità animiste, rurali e folkloriche, ma che si chiamano soldi, tecnologia, competizione, velocità, moda, redditività. Lei è d'accordo su questo punto di partenza? TARIQ RAMADAN. La ringrazio per aver posto i termini del dibattito e del dialogo sul terreno delle basi fondamentali. Credo che, in effetti, rispetto a tutti gli eccessi che si possono constatare nel mondo d'oggi, ed in particolare rispetto all'islam, si abbia l'obbligo di ritornare ai principi fondamentali. Uno studio approfondito di ciò che è l'islam nella sua formulazione primaria, nella sua traduzione letterale, nel fatto di essere sottomissione al Dio unico, ci permette di ritrovare il respiro di tutti i monoteismi. La rivelazione coranica si presenta come l'unione e la realizzazione di tutti i monoteismi delle genti del Libro (ebrei nella persona di Mosè e cristiani nella persona di Gesù), riconosciute dalla tradizione coranica. Considerare questa dimensione della fede evidenzia ciò che ci unisce, per quanto riguarda la presenza del Creatore e la visione del mondo che ne deriva, ma allo stesso modo ciò che concerne la percezione della responsabilità umana di fronte al mondo e di fronte agli uomini. E' il nocciolo intangibile di tutti i monoteismi. Andrei ancora oltre affermando che è il tronco comune di tutte le spiritualità viventi e attive che donano dignità all'uomo nella sua intimità e/o nella sua fede. J.N. Prima di procedere bisognerebbe forse mettersi d'accordo su che cos'è la fede. Vorrei citare una definizione che proviene tra l'altro da un teologo cristiano, Hans Kung: "Per gli ebrei, i cristiani ed i musulmani aver fede significa che l'uomo qui ed ora, con tutto ciò che è, con tutte le risorse del suo spirito, s'impegna in modo incondizionato e si affida totalmente a Dio ed alla Sua parola." I musulmani possono aderire a questa definizione? T.R. Le parole di Hans Kung corrispondono esattamente al respiro della fede ed al suo impegno davanti al Creatore. La fede non è semplicemente un sentimento vago, è un sentimento che è nutrito da una necessità nei confronti di Dio. Noi siamo dunque, su questo punto, in completa armonia. J.N. Potremmo ora entrare più profondamente nell'argomento ricordando che questo Dio unico al quale credono tutte le genti del Libro - con questo termine intendiamo tutti i figli d'Abramo: ebrei, cristiani e musulmani- non è il dio dei filosofi. Non è il dio che scopre Platone, per esempio, al termine di una riflessione filosofica. Il dio dei filosofi è un principio, una metafora, un postulato, tutto quello che si vuole ma non una Persona. Blaise Pascal ha fatto molto bene la distinzione nel suo celebre Memoriale dove dice:-"Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe- non dei filosofi e dei sapienti". Questo incontro di un Dio vivente e personale ha segnato Pascal, filosofo e matematico, al punto che aveva cucito un pezzo di carta recante questo testo nel suo vestito. Un musulmano preferirebbe forse questa variante:"Il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Ismaele", ma a parte questo dettaglio, la formulazione dovrebbe essere accettabile. Ciò che hanno in comune le tre grandi religioni monoteiste è che si rivolgono ad un Dio storico, un Dio che ha preso le Sue responsabilità nella storia, che si è manifestato attraverso i Suoi diversi profeti. Non è il risultato di una elaborazione intellettuale da parte di persone sapienti, non è il tappabuchi delle nostre ignoranze scientifiche, egli “ è ”e basta. Non è inventato dall'uomo, Egli va verso l'uomo e Gli si manifesta. L'uomo scopre Dio nella misura in cui gli si rivela. E' Dio che per primo gli va incontro. T.R. In quanto musulmano la formulazione pascaliana del Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe mi va perfettamente bene ed essa compare proprio così nel Corano. Per ciò che riguarda la distinzione tra il dio dei filosofi ed il fatto della rivelazione, essa è assolutamente appropriata e traduce perfettamente l'approccio islamico. Per il musulmano la rivelazione è fondamentale. Dio Si manifesta e Si presenta all'uomo tramite il Libro rivelato. La fede inizia o piuttosto si scopre attraverso l'atto della rivelazione e tutti i Libri, secondo la tradizione musulmana, fanno parte del ciclo della profezia, una rivelazione che Dio decide di fare in un momento della storia degli uomini per orientarne le responsabilità. Ciò che si deve sottolineare è che noi ammettiamo in quanto musulmani - e la cosa vale per tutte le altre tradizioni- che ci sono state delle modificazioni ed evoluzioni nelle leggi rivelate. L'elemento centrale che non è mai cambiato è il fatto che, secondo la tradizione musulmana, tutti i profeti sono venuti con il messaggio dell'unicità divina, at-Tawhid. E' detto: "E Noi non abbiamo inviato prima di te Profeti ai quali non abbiamo rivelato: non c'è altro Dio all'infuori di Me, adorateMi". E' questo ciò che unisce per natura i tre monoteismi. Non si tratta dunque di una pura costruzione intellettuale, ma di una rivelazione che confermerà, a posteriori, la facoltà razionale dell'uomo. Il Corano ne parla in continuazione: la rivelazione viene a confermare l'intuizione intellettuale e questo in particolare tramite i segni presenti in noi e attorno a noi. L'elaborazione razionale conferma successivamente la verità della suddetta intuizione. L'idea contenuta nella formula il "Libro del mondo" o il "Libro manifestato" davanti ai nostri occhi, che ritroviamo del resto nella tradizione filosofica medievale, esiste nell'islam fin dall'inizio. C'è in effetti il "Libro rivelato", quello che noi riceviamo, e c'è il "Libro manifestato", che è la manifestazione della presenza del Creatore per mezzo dei segni che provengono dalla creazione e contemporaneamente dal più profondo del nostro essere. Infatti il termine arabo ayat, che vuol dire segno, indica allo stesso tempo i "segni" dell'intimità e del mondo ed i versetti del Corano: è lo stesso termine. In realtà la corrispondenza tra i due Libri è quasi immediata e comunque naturale. Tutto partecipa a ricordare all'uomo, tramite le due rivelazioni, che qualche cosa lo abita e gli da forma. J.N. Nelle tre tradizioni: ebraica, cristiana e musulmana, Dio è anche un Dio Creatore, il che significa che è all'origine di tutto. Ma non solo come qualcuno che ha creato il mondo e poi se n'è disinteressato. Dio mantiene il mondo. Lo mantiene in esistenza. In un certo senso agisce continuamente in questo mondo. Egli è, se vogliamo utilizzare una formula, coautore di tutte le azioni dell'uomo. Resta inteso che essendo l'uomo libero e responsabile, può non fare quello che ci si aspetta da lui. E' così? T.R. Esattamente, anche se l'idea specifica di un "Dio coautore delle azioni umane" è estranea all'islam. La tradizione musulmana ha subito affermato l'idea della continuità della creazione con la presenza costante di Dio tanto che la ritroviamo più tardi ad esempio nella filosofia cartesiana. Dio accompagna la Sua creazione. In questo senso, per il musulmano ed il credente - da un punto di vista generale - questa relazione tra Dio ed il mondo stabilisce un doppio rapporto di responsabilità e fiducia. Coscienza della propria responsabilità e fiducia nella Sua bontà e nel Suo amore. Le divergenze fra le tre religioni monoteiste J.N. Poiché abbiamo scoperto i punti di convergenza, occupiamoci ora dei punti di divergenza. All'interno di ciascuna delle tre religioni, c'è un punto di disaccordo, un'idea sulla quale i fedeli si irritano: a loro pare che rinunciarvi corrisponda a perdere la propria identità. E questa idea è assolutamente inaccettabile per le altre due religioni. Per il giudaismo, la particolarità è costituita dall'affermazione che il popolo d'Israele è un popolo eletto. Dio si rivela attraverso una discendenza umana ed il resto dell'umanità è escluso da questa rivelazione. Ciò non vuol dire che i non-ebrei siano dannati o perduti, ma resta il fatto che un goy non può diventare ebreo. La conversione di un non-ebreo al giudaismo è un'impresa estremamente difficile. Del resto, gli ebrei non hanno mai cercato di fare un'attività missionaria di una certa portata anche se ci sono state delle conversioni isolate. Il concetto di popolo eletto, di legame privilegiato tra Dio ed un gruppo umano non è ovviamente accettabile per gli altri, gli esclusi dall'Alleanza. Certamente non per l'islam che raggruppa arabi e persiani, tuareg e sudanesi, indiani e indonesiani, turchi e albanesi, poiché ci sono anche musulmani europei. L'esclusività di un popolo eletto è ancor meno accettabile per i cristiani, visto che il cristianesimo è nato da un movimento di conversione in cui pagani greci, romani e celti hanno aderito almeno in parte alla tradizione giudaica. I cristiani si sono appropriati del monoteismo di Israele affermando che essi compivano la promessa fatta ai profeti e che Gesù di Nazareth era il Messia che Israele continuava ad attendere. Se consideriamo la fede cristiana, scopriamo anche qui un punto centrale che costituisce un argomento di disaccordo. Dio incarnato nella persona di Gesù è un concetto inassimilabile ed inaccettabile per le altre due religioni. Dio incarnato in un uomo è una bestemmia per gli ebrei, bestemmia per la quale Gesù è stato denunciato agli occupanti romani che l'hanno condannato e messo a morte. Ed è una bestemmia anche per un musulmano: Gesù di Nazareth è un profeta ma non di natura divina. Se cerchiamo il punto centrale dell'islam che costituisce il pomo della discordia con cristiani ed ebrei, ho l'impressione che esso ruoti intorno al posto preminente che ha il Corano, parola testuale di Dio, alla quale nulla si può togliere o aggiungere. Sarebbe questo, a suo avviso, il punto sul quale lei, in quanto musulmano, non transigerebbe? Il punto sul quale lei si sentirebbe il più diverso rispetto agli altri credenti nel Dio d'Abramo. T.R. Lei ha ben interpretato le rispettive posizioni delle religioni sui punti di divergenza fondamentali. Certo, si potrebbe andare oltre nei dettagli dei disaccordi ed in particolare tra l'islam, il giudaismo ed il cristianesimo sulle questioni importanti legate ai Testi stessi, alla Legge, alla Trinità, alla grazia, ecc. Ma l'essenziale è proprio quello che lei ha citato. Aggiungerei, comunque, che c'è un concetto che, per i musulmani, costituisce un problema: mi riferisco al peccato originale, che ha un legame diretto con la concezione dell'uomo e con la rappresentazione della persona di Gesù nella tradizione cristiana. La questione è fondamentale perché entra in conflitto con il principio dell'innocenza, il cuore della concezione islamica dell'uomo: da innocente, l'uomo diventa responsabile; non si considera colpevole dell'errore di un altro, in particolare di quello d'Adamo. In quanto musulmani, è vero che oggigiorno gli elementi sui quali siamo maggiormente interpellati -per quello che riguarda la mia esperienza personale- riguardano il posto che ha il Corano nella nostra religione poiché per noi è la Parola di Dio così com'è stata rivelata, non solo nei significati, ma anche nella forma, il che significa che è sacro sotto tutti i punti di vista (la stessa cosa vale per il modo in cui trattiamo il libro vero e proprio nella vita quotidiana). Un rispetto profondo scaturisce dal nostro legame con il Libro, con il contenuto, con la forma, ed anche con la lettura e anche lei può constatare che i musulmani hanno un grande riguardo nei confronti del Libro rivelato. Qui si pone la questione dell'esegesi critica e scientifica che, tutto sommato, è un dibattito fondamentale. Mi è capitato qualche volta, durante le discussioni che ho avuto con amici cristiani, di sentirmi punto sul vivo al culmine di un dibattito molto interessante. Cioè ad un certo punto, la critica cosiddetta "moderna e scientifica" che si vorrebbe io facessi al testo, presupporrebbe che rinnegassi uno degli elementi fondamentali della mia fede, quello di credere che il testo coranico sia rivelato e che sia la parola di Dio. Il che non significa - ed è quello che cerco sempre di spiegare - che s'impone una lettura statica e letterale. Al contrario, la Parola rivelata esige una lettura ed una comprensione continuamente rinnovata attraverso i secoli. Il testo resta comunque il riferimento nel senso che necessariamente orienta e circoscrive la lettura. Ripeto, questa non è statica ed ecco perché ogni secolo ci sono nuovi commenti del Corano: uno, due, tre o anche più ma non si arriva a riconsiderare lo statuto della parola rivelata. Questo, per proseguire, mi spinge anche a parlare delle interpretazioni che ho avuto modo di sentire da un buon numero di cristiani e che li portano ad affermare: nel cristianesimo, l'incarnazione è avvenuta nell'uomo; nell'islam, l'incarnazione è avvenuta nel Libro. Lo stato di libro nell'islam non ha nulla a che vedere con lo stato dell'incarnazione di Gesù nel cristianesimo. E' meglio non confondere i riferimenti, anche se si ammette che il modo in cui viene considerato il Corano può creare qualche problema nel dibattito interreligioso. Il ruolo eminente del Corano nella fede musulmana J.N. Forse è il momento di provare a presentare il Corano, poiché i lettori probabilmente hanno idee assai imprecise a riguardo. La forma definitiva del testo del Corano è stata fissata da uno dei primi califfi, che l'ha fatta mettere per iscritto e che ha fatto distruggere tutte le copie precedenti. T.R. Secondo la tradizione musulmana il testo del Corano è stato elaborato principalmente in tre tappe. La prima fase di costituzione del testo è stata realizzata all'epoca del Profeta. Si trattava all'inizio di una trasmissione orale, ma già allora, secondo le raccomandazioni del Profeta, alcuni scribi scelti da lui trascrivevano i versetti rivelati su tutti i materiali a disposizione, scapole di cammello o altro supporto. Per ventitre anni l'angelo Gabriele ha trasmesso il testo al Profeta ed ogni anno, durante il mese di ramadan, veniva a fargli recitare tutto il testo rivelato fino a quel momento. Nell'ultimo anno di vita del Profeta l'angelo Gabriele glielo ha fatto recitare due volte nell'ordine e nella forma che oggi conosciamo. J.N. In quel preciso momento il Corano è puramente orale? T.R. Orale, sì, ma accompagnato da testi scritti sui diversi materiali di cui ho già parlato. Alcuni scribi, uno dei più noti è Zayd Ibn Thabit, si occupavano di trascrivere e conservare i versetti rivelati. Dopo la morte del Profeta ed in particolare dopo la battaglia di Yamama (nel 633, un anno dopo la scomparsa del Profeta), nella quale morirono più di settanta persone che conoscevano a memoria il Corano, su suggerimento di 'Umar, fu deciso di riunire i fogli sparsi e costituire un testo completo. Questo sarà il primo mushaf ("riunione dei fogli"), che verrà depositato presso una donna, Hafsa, figlia dello stesso 'Umar (che diventerà il secondo califfo). J.N. Ed esiste tuttora? T.R. C'è ancora una tappa tra questo testo iniziale e quelli che abbiamo noi oggi. Il terzo califfo, Uthman vedendo che, con la dispersione dei musulmani, le letture cominciavano a divergere, ha fatto copiare esemplari del Corano a partire dall'originale di Hafsa e le ha fatte distribuire in tutto il territorio musulmano, esigendo che questo testo fosse da quel momento in poi il riferimento. Siamo dunque nel 653, vent'anni dopo la morte di Muhammad. Il testo che abbiamo noi oggi è nato da queste copie fondate esse stesse sull'originale di Hafsa. J.N. A quest'epoca, tra il 650 ed il 660, vengono diffuse un certo numero di copie. Intendiamoci, queste copie sono manoscritte. T.R. L’affermazione del testo scritto inizia a partire già dal 633 e la sua diffusione, in effetti, prosegue fino al 660 e anche oltre in tutto il territorio musulmano. J.N. Quali sono attualmente i manoscritti più antichi che abbiamo a disposizione? T.R. I pareri sono diversi. Esiste la copia detta "dell'Imam" che sarebbe appartenuta a Uthman stesso, ucciso, secondo la tradizione, mentre lo leggeva. Si trova oggi in Turchia e porterebbe la data degli anni 650. Gli esperti hanno confermato la plausibilità di questa data. Esiste un'altra copia, quella della Biblioteca nazionale egiziana che porterebbe la data dell'anno 688, cioè cinquantasei anni dopo la morte del Profeta, e che deve esser stata basata sul manoscritto di Uthman. Altri frammenti antichi si trovano sparsi nei musei di tutto il mondo, in Siria, in Egitto, nell'Africa del Nord, ecc. J. N. Chi ha attualmente l'incarico di conservare questo manoscritto? Gli Stati, l'autorità religiosa, l'università? T.R. Sono gli Stati che, tramite le loro istituzioni religiose e/o i loro musei, preservano il patrimonio musulmano. A partire dall'epoca ottomana, si è lavorato molto per la conservazione di questo patrimonio. J.N. Dunque, con molta rapidità si ha a disposizione una testimonianza scritta, materiale, un manoscritto, da trenta a quarant'anni dopo la morte del Profeta, che avviene nel 632. La coincidenza è perfetta tra tutte le copie che sono state fatte di questo manoscritto originale? T.R. Fin dall'origine la possibilità di copiare il Corano veniva concessa con estrema cautela. E' così anche oggi: nessun Corano può essere pubblicato senza aver ricevuto l'imprimatur e questo dopo una rilettura scrupolosa da parte delle istituzioni specializzate. Il testo oggi è dunque lo stesso e le differenze che si possono constatare riguardano la grafia, la trascrizione, la presenza dei segni diacritici ma, a parte questo, il testo è lo stesso. J.N. La coerenza dei testi disponibili è un risultato, quindi, della rapidità con la quale il testo è stato fissato. Per fare un paragone, i migliori manoscritti del libro di Isaia nella Bibbia erano datati VII o VIII secolo della nostra era, finché non si è scoperto un manoscritto a Qumran che risaliva al 200 a.C. Si sono scoperte delle differenze notevoli tra queste due versioni manoscritte di Isaia. Non c'è niente di strano quando si confrontano due copie fatte a mille anni di distanza. Copiare e ricopiare un testo comporta inevitabilmente delle infedeltà, volontarie o no. Siamo talmente abituati alla fotocopiatrice che c'è la tendenza a dimenticare questa limitazione nella trasmissione dei testi con i metodi dell'antichità. T.R. In effetti può essere una questione di rapidità della trasmissione. Comunque il musulmano trova nel Corano l'idea che Dio ha fatto scendere il "ricordo" (adh-dhikr) - uno dei nomi del Corano - e che lo ha fatto in modo tale che si conservi nella sua forma originale. Per noi questo è uno dei segni che il Corano è l'ultimo testo rivelato, confermato nella sua forma originale e tale resterà per sempre. Il testo e la sua forza evocatrice, come dire, confermano la fiducia nata dalla fede. J.N. Del resto ritroviamo un atteggiamento identico tra i fondamentalisti cristiani che prendono alla lettera il testo della Bibbia e si rifiutano di interpretarlo. Sono estremamente stupefatti quando si dice loro che non solo ci sono delle varianti tra i diversi manoscritti ma, confrontando le copie, ci sono anche aggiunte che talvolta sono importanti. Addirittura l'unico testo nominato dal Vangelo dove Gesù dice esplicitamente di essere il Figlio di Dio è considerato apocrifo dagli esegeti contemporanei. Non faceva parte dei Vangeli originali. La cosa è di una certa importanza se si considera che questo è proprio il punto di scontro tra cristiani da una parte e ebrei e musulmani dall'altra. T.R, Quando lei fa il parallelo con la tradizione fondamentalista, è importante precisare un punto centrale. Qui c'è una differenza radicale che ci impone di allontanarci un pò dalla storia del cristianesimo e del suo rapporto col testo. La posizione rigida che si può trovare tra certi musulmani non è funzione dell'affermazione: è un testo sacro che non si tocca. Su questo punto c'è all'interno della comunità musulmana il consenso generale. Ciò non significa che ci asteniamo di interpretarlo anzi, numerosi ‘ulema’ dicono: è un testo rivelato, ma abbiamo il dovere di farne un'interpretazione, certi passi del resto ci obbligano a farlo. Si devono stabilire delle norme interpretative. Qui si avverte una differenza rispetto alla tradizione fondamentalista cristiana. Il carattere assoluto non impedisce la relatività ed il rinnovamento dell'interpretazione, al contrario, tende a fare della fedeltà al testo un'imperativo. L'interpretazione non è certo libera, ma essa non può trascurare il contesto della vita degli uomini che lo studiano. E' dunque un lavoro sul rapporto permanente tra il testo e il contesto che non troviamo tra i fondamentalisti cristiani e neppure tra alcuni musulmani che effettivamente fanno una lettura molto tradizionalista e letterale. J.N. Nella tradizione musulmana c'è un grande rispetto per le scienza e per il lavoro intellettuale. La fede nell'islam è tutt'altro che irrazionale. C'è invece un'espressione iperbolica della fede cristiana che consiste nel dire "credo quia absurdum" o ancora "credo perché quello mi sembra assurdo". Un'argomentazione del genere è inammissibile per un musulmano. Non credo perché la fede è assurda ma perché è praticabile e ragionevole. Sui punti di morale o di diritto dove il Corano non prescrive nulla, sta all'intelligenza umana agire in analogia con i grandi orientamenti trasmessi dal Profeta. Questi sono i principi fondamentali della lettura del Corano. Parliamo ancora brevemente della lingua utilizzata. Da un capo all'altro è l'arabo, ovviamente, l'arabo classico, che determina le regole linguistiche. Dopo il VII secolo si è frantumato e da esso sono derivati tutta una serie di dialetti che rendono talmente difficoltosa una conversazione tra un tunisino ed un saudita: rischiano spesso di finire col discutere in inglese. E' comunque sorprendente scoprire che un autore destreggi una lingua così perfetta dal momento che non è un intellettuale. Di mestiere Muhammad è carovaniere, l'equivalente all'epoca di quello che sarebbe oggi un padroncino, un uomo dalla vita difficile e pericolosa, non un letterato chiuso nel suo studio. La qualità del testo è certo stupefacente. Secondo la tradizione, Muhammad ha imparato a memoria le parole dettategli da un messaggero celeste. Si tratta dunque all'inizio di una letteratura orale che in seguito è stata messa per iscritto da scribi poiché il Profeta non sapeva scrivere. E' lui l'autore del testo o è semplicemente colui che trascrive? T.R. Egli non fa che ripetere quello che riceve. Non è l'autore, è Dio che parla attraverso la forma ed il contenuto del testo ed è per questo motivo che a volte ci sentiamo in imbarazzo, nei dialoghi interreligiosi per esempio, quando i nostri interlocutori dicono, riferendosi al Corano, "Maometto ha detto". Dà fastidio, ma è comprensibile alla luce della tradizione dell'altro. Per noi il testo è stato rivelato così com'è ed il Profeta non è stato altro che il suo depositario e trasmettitore. Tutte le tradizioni e scuole islamiche sono d'accordo su questo: il miracolo dell'islam è essenzialmente il Testo, considerato nella sua forma, nel suo contenuto, nel suo ritmo e nell'energia spirituale che da esso si sprigiona. E' un testo che dispone di una lingua perfetta. Sul piano grammaticale è il riferimento della lingua araba classica e di tutti i dialetti che ne sono derivati. Il riferimento dell'arabo classico in materia di morfologia e grammatica è il testo coranico. Inoltre, ciò che emana sul piano emotivo e spirituale, quando è salmodiato, conferma al credente il miracolo della sua rivelazione. Il lavoro di interpretazione del Corano J.N. Da due secoli la Bibbia è oggetto di numerosi studi filologici che hanno permesso di comprendere meglio come è stata compilata. Anche all'interno di un libro presentato come l'opera di Isaia o di Giovanni si è scoperto che c'erano più autori. Confrontando i manoscritti, affidandosi all'analisi linguistica, si sa meglio oggi ciò che fa veramente parte del testo originale e ciò che è stato aggiunto in seguito. Questa grande impresa d'esegesi ha profondamente modificato il rapporto che i cristiani hanno col loro libro santo. Uno studio di questo tipo è concepibile per il Corano? T.R. Qui si arriva al nocciolo della questione. Cioè quello che lei afferma viene considerato da un musulmano come mettere in discussione uno degli elementi della sua fede: l'ho detto, il testo rivelato è di origine divina. Esistono certo studi sulla lingua, sulla contestualità delle rivelazioni e su molti altri argomenti, ma mai al punto di arrivare a supporre l'intervento di più redattori poiché fa parte della fede fondamentale del musulmano considerarlo l'espressione della rivelazione del Dio unico. Dunque non si arriva fin là. Tuttavia bisogna dire che il lavoro d'interpretazione, di comprensione e di analisi continua al fine di rendere il testo accessibile, udibile, presente all'intelligenza degli uomini che lo leggono attraverso i secoli. E' su questo punto che si può parlare di rinnovamento e dinamismo permanente in rapporto al testo. Sul piano sociale, come sul piano morale, come ancora sul piano delle scienze. J.N. Che differenza rispetto al testo del Nuovo Testamento! La versione originale è redatta in koiné, un tipo di greco di qualità pessima, una specie di sabir che si usa nel Medio Oriente per comunicare con le diverse culture. Il testo del Vangelo di Marco, secondo quello che mi hanno detto, è scritto da un uomo del popolo che ignora certi modi e tempi delle coniugazioni, proprio come il congiuntivo che oggi non è più utilizzato nella lingua popolare francese. Si può forse ricordare anche che il Corano è intraducibile per definizione, sebbene si pubblichino delle traduzioni che non fanno assolutamente testo. Nei suoi libri per esempio utilizza sempre l'originale in arabo seguito da una traduzione in francese. Non è forse una sorta di purismo nei confronti di un testo sicuramente prezioso e rispettabile ma che, in ultima analisi, altro non è che un mezzo tra tanti per attestare la fede? Dio non parla né ebraico, né greco, né arabo. Parla a uomini che cercano poi di trasmettere il messaggio che hanno ricevuto utilizzando parole umane, poverissime ed insufficienti. T.R. E' vero che una traduzione non è "il Corano". Tuttavia la possibilità di tradurre il testo c'è e bisogna provarcisi. E' un lavoro che è stato incoraggiato sin dai primordi nella tradizione musulmana ed in particolare con l'espansione islamica. Si deve però riconoscere un punto fondamentale: la traduzione non è il Corano, essa ne è già l'interpretazione, poiché tradurre significa interpretare. Ogni traduzione deve far presente il proprio margine interpretativo, ragione per la quale mi attengo al metodo che consiste nel porre i versetti in arabo davanti alla traduzione in francese o in inglese. Mi sembra un buon ricordo per il lettore. Pertanto non bisogna essere rigidi. Le citazioni immediate in una lingua europea non hanno niente di sacrilego e spesso mi capita, negli articoli o anche nelle opere, di fare la traduzione immediata. L'importante resta la fedeltà puntigliosa al senso e ricordare che le deficienze sono dovute ai traduttori, non al testo originale. Oggi ci sono numerose traduzioni francesi. Nessuna è veramente perfetta ma ci si può riferire ad esse per accedere al testo: permettono un primo approccio e sono necessarie. J.N. E, in particolare, un aiuto indispensabile alla diffusione ed alla conservazione della fede, perché non si può supporre che tutti i musulmani padroneggino perfettamente l'arabo. Non parliamo dell'Indonesia o della Bosnia, ma persino nel Maghreb si fanno ripetere nelle madaris ai bambini versetti coranici in arabo classico, che sono quindi in grado di leggere, ma la loro lingua orale, usata tutti i giorni in famiglia, è molto lontana dall'arabo classico. T.R. Ci sono effettivamente grandi difficoltà per quanto riguarda la capacità di interpretare o di comprendere i testi. Più ancora oggi di ieri. Si deve ricorrere alla spiegazione ed al commento. Il testo si comprende nella sua globalità ma molti elementi di dettaglio sfuggono alla comprensione. Quello che commuove fortemente è il ritmo e la salmodia, che non si trovano nelle traduzioni. Nella lingua araba questo è evidente e la tradizione musulmana tiene in grande considerazione i lettori del Corano che hanno la capacità di restituire la forza emotiva che in esso risiede. J.N. Esistono, nella tradizione cristiana, almeno due testi analoghi: da una parte la Bibbia di Lutero, che è servita da norma per la lingua tedesca; dall'altra, in inglese, la versione di Re Giacomo, che tutti gli anglofoni usano. In francese è il lavoro che si è cercato di intraprendere con la Bibbia di Gerusalemme, dove ci si è rivolti a dei poeti per avere finalmente un testo comprensibile, leggibile e bello. Ma è già stato sostituito dalla TOB (Traduzione ecumenica della Bibbia). Ricapitolando: davanti al testo del Corano, l'atteggiamento del musulmano è un lavoro d'interpretazione, ma mai di critica storica, che sarebbe considerato blasfemo? Ci si può spingere fino a qui? T.R. Sì, ma bisogna far attenzione alla formulazione. Come ho già detto, si tratta di un elemento fondamentale della fede ma il termine "blasfemo" è connotato all'interno di una tradizione specifica. E' difficile esportarlo così com'è. Credo che, in effetti, il tipo di analisi critica che togliesse o negasse al testo il carattere di rivelazione divina metterebbe l'autore ai margini dei fondamenti della tradizione musulmana. E' questo il punto essenziale. J.N. Questo rapporto reverenziale nei confronti del testo ha costituito la regola anche nell'Occidente cristiano. La prima persona che ha cercato di fare critica biblica, un prete dell'Oratorio, Pierre Richard, si è scontrato con un prelato assai noto come Bossuet. A quell'epoca è chiaro che i libri sacri, non tradotti ed intraducibili, costituiscono la base del potere monarchico: meno il popolo è in grado di accedere al testo, più questo serve per circondare di un'aura di mistero un potere sacralizzato. Luigi XIV è investito del potere direttamente da Dio. Nello stesso periodo i cristiani riformati hanno accesso al testo tradotto in lingua volgare. Dalla seconda metà del XIX secolo Adolf von Harnack e poi Rudolf Bultmann si dedicheranno alla rilettura della Bibbia alla luce dell'esegesi storica e critica. Ma la cosa viene accolta molto male sia dai fondamentalisti protestanti che dagli integralisti cattolici: molte persone ci tengono a prendere la Bibbia alla lettera. Davanti a questa situazione ci si domanda se non sarebbe importante - e, comunque, la cosa comincia già a presentarsi- che ci fossero contemporaneamente islamisti cristiani, cioè dei cristiani che cercano di conoscere a fondo l'islam, che facessero uno studio del Corano con occhi cristiani, e in senso inverso, cristologi musulmani, cioè intellettuali musulmani che cercassero di penetrare la Bibbia ebraica e poi il Vangelo. In un modo o nell'altro, bisogna costruire un ponte, perché non si può organizzare una società vivibile senza la conoscenza ed il rispetto reciproci. T.R. Il suo intervento mi spinge a precisare due o tre punti. Il primo nasce da una situazione che affronto molto spesso. Vorrei dunque rispondere in modo chiaro. Essa sostiene l'opinione che le differenze altro non sono che un ritardo nei tempi. Del tipo:"Anche per noi c'è stato un tempo in cui non si metteva in discussione lo statuto del testo rivelato poi ci siamo ricreduti. Oggi conta solo lo studio scientifico." Quest’opinione lascia intendere che in realtà, in campo religioso e culturale, l'islam e i musulmani sono in ritardo, devono ancora evolversi verso quest’atteggiamento critico che pare sia diventato la norma universale della modernità. Posso capire, tenuto conto della storia di ogni civiltà, che si abbia quest’atteggia-mento. E' naturale ed umano ma non è, esso stesso, molto scientifico. Bisogna che le basi del dialogo siano chiare e se, per esempio, dico che un concetto è parte fondamentale della mia fede, sarebbe inaccettabile ed ingiusto, dire che ciò che io credo non è altro che l'espressione del mio ritardo e che mi devo evolvere. Come se la norma dell'unica buona "convinzione moderna" fosse nelle mani di una storia particolare, in questo contesto, quella dell'Occidente. Non bisogna confondere la situazione del mondo musulmano sul piano economico, che rivela chiaramente un sottosviluppo, con l'idea di un sottosviluppo religioso e culturale. La deduzione è pericolosa ed infondata e tende a far credere che la discussione sarà possibile solo quando i musulmani avranno vissuto ciò che noi, occidentali, abbiamo vissuto. E' una sorta di universalizzazione di una storia particolare e, a valle, dei suoi valori e dei suoi metodi. Credo che sia necessario capire che abbiamo qui due sfere di civiltà, due religioni, se si parla del cristianesimo e dell'islam, che hanno fondamenti diversi e storie specifiche. L'una non è parametro dell'altra anche se economicamente è più avanzata. Ciascuna deve riuscire a trovare le modalità che le permetteranno di far fronte alla modernità senza che ciò significhi rimettere in causa un elemento della sua fede, del suo essere, della sua identità. Spesso ho spiegato ai miei amici cristiani, ebrei e laici: “Attenzione! Voi non state toccando un elemento che si evolve con la storia, state toccando un elemento che è l'essenza di una fede”. Il problema è sapere se i musulmani possono, avendo fede in un testo rivelato, affrontare le sfide del mondo moderno e del pluralismo e questo anche se ritengono che il loro riferimento sia assoluto. Questo è il primo punto. Il secondo elemento che lei puntualizza - ovvero lo scambio che dovrebbe esserci - mi sembra un passo fondamentale. Ho l'impressione che, sfortunatamente, ci sia stato un tempo in cui questo dialogo era più avanzato di quanto non lo sia oggi e questo per due ragioni. Da una parte, gli orientalisti che abbiamo conosciuto all'inizio del secolo padroneggiavano la lingua araba ed avevano un'ottima conoscenza del mondo musulmano. Personaggi come Massignon, Berque, Laoust o Gardet erano intellettuali che conoscevano la lingua araba e comprendevano la logica interna dei riferimenti musulmani ad un livello che purtroppo non ha più nulla a che fare con quello di coloro che io chiamo oggi "i nuovi specialisti dell'islam". Questi ultimi, ahimè, sono troppo occupati ad analizzare esclusivamente l'aspetto sociale e politico dei movimenti musulmani. Resta il fatto che abbiamo urgentemente bisogno di questo dialogo e ben a monte delle logiche sociali: bisogna prima assicurarsi di una mutua buona comprensione dei riferimenti religiosi e culturali (del resto è proprio quello che noi stessi stiamo facendo). Iniziare un'opera come la nostra, significa farlo dall'inizio, il vero inizio, il vero dialogo, se no ci si perde troppo rapidamente in analisi derivate e già troppo orientate verso la politica o il sociale. Credo che, allo stesso modo, i musulmani farebbero bene a procedere in questo senso. Nel corso di un mio recente soggiorno in Inghilterra, ho avuto l'occasione di constatare che tre o quattro studenti musulmani si sono dedicati ormai a studi teologici cristiani. E' relativamente poco ma interessante perché i musulmani hanno una visione della teologia e dell'approccio cristiano a volte molto caricaturale, come se non si trattasse d'altro che di una rassegnazione di fronte all'ideologia modernista, come se non restasse più niente della fede cristiana. Impressione alla quale bisogna aggiungere un'interpretazione della Trinità che non ha più molto a che vedere con quella di cui parla un cristiano. Credo che il minimo che si debba fare quando ci si rispetta è sapere ciò che l'altro dice della sua fede, poiché si gradirebbe che lui ascoltasse ciò che abbiamo da dire, noi, della nostra. Lei ha dunque perfettamente ragione. Bisogna mettere in evidenza, e con forza, la mancanza di un dialogo profondo e costruttivo... perché il dialogo che si limita ad analizzare solo le situazioni politiche non può portare al rispetto. Il rapporto tra le religioni: l’islam vittorioso J.N. Propongo di chiudere il capitolo sul Corano: si tratta, certo, di un punto di scontro, dal momento che l'islam considera come la verità più preziosa che questo libro è stato dettato da Dio stesso a Muhammad e che nulla può essere cambiato al testo i cui precetti devono essere rigorosamente seguiti. Di fronte a questa roccaforte della fede musulmana si trovano le altre due fedi monoteiste che si sentono minacciate. L'islam è una religione monoteista centrata sulla vittoria del Profeta. Il cristianesimo ha la sua fonte nella morte di Gesù, anche se questa è in seguito cancellata dalla resurrezione di Pasqua. Il popolo ebraico ha percorso una lunga storia di sconfitte e d'esilio: la sua attuale vittoria è altrettanto precaria poiché si basa sullo scontro col popolo palestinese, in maggioranza musulmano ma anche cristiano. Da una parte, dunque, il successo terreno, dalle altre due, il fallimento perpetuo. Ricordiamo il quadro storico: il Profeta è nato nel 570; nel 610 inizia la sua missione; nel 622 ha luogo l'Egira, l'esilio dei musulmani perseguitati alla Mecca e partiti per rifugiarsi a Medina; il Profeta muore nel 632; l'espansione dell'islam è assolutamente prodigiosa, poiché nel 732 avviene la battaglia di Poitiers. Un secolo dopo la morte del Profeta, c'è già un esercito musulmano nel centro della Francia. In quel momento, in capo a un secolo, tutta l'Africa del Nord è diventata musulmana. Non tutti gli abitanti si sono già convertiti, ma lo faranno poco a poco. Allo stesso modo tutta la Spagna è sotto il potere dell'islam anche se numerosi Spagnoli restano cristiani o ebrei. Gerusalemme, la Palestina e la Siria sono conquistate da eserciti arabi. Resta, comunque, quello che oggi sono la Turchia e l'Anatolia, sempre nelle mani di Bisanzio, erede dell'Impero romano. Resta l'Impero persiano, ancora totalmente zoroastriano (religione di Zarathustra, profeta vissuto intorno al 600 a.C.). Ma il mondo musulmano è gigantesco, più o meno la metà del bacino del Mediterraneo e si organizza in un secolo. Qual'è la ragione di questa rapida espansione? Secondo una visione caricaturale della storia, essa viene spesso rappresentata come il risultato di una conquista di guerra fatta di massacri, saccheggi e conversioni forzate. Ciò fa parte dell'immagine di un islam conquistatore e violento. Questa immagine sommaria non ha fondamento. Impossibile immaginare che qualche tribù di beduini e qualche città della penisola araba siano riuscite a conquistare la metà dell'antico Impero romano contro il sentimento delle popolazioni. Molto rapidamente l'islam converte le popolazioni locali, i cristiani ma non gli ebrei. Minoranze cristiane sono rimaste da allora in tutto il Medio Oriente e in Egitto, il che prova come le conversioni non siano state imposte sistematicamente. C'è dunque un enigma: perché i cristiani a contatto con l'islam si sono così facilmente convertiti? Che cosa li rendeva così fragili? L'epopea dell'islam nel VII secolo ha quindi più aspetti: è allo stesso tempo religiosa e politica oltre che militare. Il Profeta è un vincitore. Se guardiamo invece il fondatore del cristianesimo, si può dire che la vita di Gesù sia un fallimento. Muore in modo infamante e ciò è insopportabile per l'islam. Gesù fa parte dei Profeti, lo stesso rango di Noè, Mosè e più tardi Muhammad. Il Corano spiega infatti che gli ebrei credono di aver messo a morte Gesù, in realtà egli è elevato al Cielo da Dio. T.R. Sì, proprio così. L'episodio della crocefissione e della morte di Gesù, così come viene raccontato nella Bibbia, non è per nulla confermato dal Corano, al contrario. A loro appare (shubbiha lahum, secondo la formula coranica) di aver ucciso Gesù, ma non è così. Nella tradizione musulmana l'episodio della crocefissione non riguarda la persona di Gesù. Il Corano conferma la sua condizione di Profeta e Inviato di Dio, ma non quell'episodio, né la tesi della sua natura divina. Inoltre il grido di Gesù sulla croce "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?" riportato dal Vangelo, rivela un paradosso in totale opposizione al messaggio coranico. J.N. C'è qualcosa di fondamentalmente ottimista nell'islam, in opposizione ad un certo pessimismo cristiano. Il mito cristiano della colpa universale Veniamo a quello che lei ha accennato prima, il mito del peccato originale. Ribadisco mito del peccato originale perché si può cercare in tutta la Torah, ma da nessuna parte viene utilizzata l'espressione "peccato originale". Secondo il racconto, Adamo ed Eva commettono un errore, che in fondo è il simbolo di tutti gli sbagli che commetteranno gli uomini in seguito. Ciò significa fondamentalmente che l'umanità è debole e peccatrice. Nella Torah Adamo ed Eva vengono espulsi dal Paradiso Terrestre, Dio li caccia, li maledice e non lascia neppure intendere sul momento che ci sarà un riscatto da parte di Gesù. Il riscatto per mezzo della morte di Gesù è comunque anche per i cristiani difficilmente comprensibile con la mentalità attuale. Pare assurdo oggi che Dio voglia la morte sia di un Profeta, sia del proprio Figlio, per placare la Sua ira. Un tale Dio si comporta come un tiranno dell'antichità. All'epoca della redazione dei Vangeli, la colpa non era mai individuale, ma collettiva. Tutta la famiglia pagava per l'errore di uno dei suoi membri. Nelle regioni più arretrate del Mediterraneo questa tradizione è stata mantenuta, in Corsica, in Sicilia, nella montagna del Libano. Nelle cerimonie e nei testi cristiani si trovano molte allusioni al mito del peccato originale, un mito assolutamente orribile. Nel Corano, che racconta la stessa storia del peccato di Adamo ed Eva, prototipo del peccato di tutti gli uomini, Dio li perdona subito. I cristiani e gli ebrei dicono sì che Dio è misericordioso, ma ha l'aria d'essere un pò più misericordioso nell'islam che con i cristiani. T.R. Il modo in cui ha raccontato le rispettive storie che risalgono ad Adamo ed Eva è del tutto corretto. Andando più a fondo nell'analisi comparativa, si può affermare che qui si tocca un punto fondamentale sul quale insisto molto. Si tratta anche della nozione del tragico che nasce dall'incomprensione che non si può non provare di fronte al racconto della Bibbia. Viene quasi naturale chiedersi: ma come Dio ha potuto volere ciò? Rispetto alla tradizione musulmana, a monte della storia di Adamo ed Eva, mi paiono importanti due elementi che spiegano che cosa si lega all'ottimismo dell'islam del quale lei parla e che associo, in opposizione al tragico cristiano, alla fiducia ed alla serenità interiore. Nella tradizione musulmana all'origine della creazione tutta l'umanità, tratta dalle reni di Adamo, è presente e testimonia la realtà di un patto originale tra Dio e l'umanità. Dio fa attestare agli uomini: "Non sono io il vostro Signore?" E tutta l'umanità risponde: "Certo, noi lo attestiamo". Questo episodio della creazione è molto importante per capire tutto ciò che accade in seguito. Perché? Perché secondo la tradizione musulmana esiste nel cuore di ogni creatura un'aspirazione naturale verso il trascendente (fitra in arabo). Potrebbe accostarsi all'idea di Mircea Eliade, anche se solo incidentalmente, quando afferma che la dimensione spirituale fa parte della struttura della coscienza umana. Nell'islam questa dimensione esiste nel cuore di ognuno, anche di colui che più tardi la negherà. L'aspirazione verso il trascendente resta. In altri termini, la fede non è qualcosa che si aggiunge ma qualcosa che preesiste e che può essere velato. E' un punto fondamentale sul quale non si insiste molto ma che mette in evidenza una concezione molto particolare dell'uomo. La fede originaria può dunque essere velata e, infatti, scoprire la fede significa svelare, ritrovare. E' in opposizione totale con la tradizione filosofica razionalista fino a Camus che dice: la fede è un salto, dalla ragione ad altra cosa. Kant non diceva diversamente quando affermava di dover lasciare il sapere per occuparsi del credere. Nell'islam la geografia delle facoltà è diversa e non si tratta mai di "saltare" più lontano in una sfera della conoscenza intrinsecamente e qualitativamente diversa; al contrario, si tratta di rivisitare, di ritornare alla natura profonda del cuore che "spira qualche cosa" prima che la ragione ne elabori una qualche costruzione scientificamente vera. La differenza è di qualità. Se torniamo ad Adamo, si chiarisce un'altra cosa: la fede, originaria e confermata, non impedisce l'errore. Ma chi ha fiducia, dopo l'errore, trova il perdono. La fiducia è onnipresente perché il tendere verso Dio è un impulso naturale e perché l'uomo conosce allo stesso tempo la sua primigenia responsabilità e la sua fragilità. C'è un legame indissociabile tra il sentimento di responsabilità e la fiducia verso Dio ed il Suo perdono: per via della natura stessa dell'uomo, e questo fin dall'origine. Qui si può parlare del secondo elemento fondamentale derivante da questa percezione: l'umanismo islamico è fondato sulla concezione dell'innocenza originaria dell'uomo. Egli è innocente per essenza e diventa responsabile solo a partire dall'età della ragione, l'età della coscienza. Fino ad allora egli è in armonia con il creato come lo sono l'uccello e la natura. E' una partecipazione ed una sottomissione naturale all'ordine della creazione che precede la sottomissione della coscienza e della volontà dell'essere che si distingue per la sua libertà. Nei due casi si utilizza lo stesso termine nel Corano, islam (letteralmente, "sottomissione"). E' una religione che fonda la responsabilità sulla fiducia e quest'ultima sull'umiltà, mai sulla colpevolezza. Questo rapporto con la colpevolezza originaria non esiste nell'islam. J.N. Il cristianesimo ha funzionato per secoli come una religione della colpevolezza. Oggi questo atteggiamento è divenuto difficilmente accettabile. Forse a causa della secolarizzazione, che sembra rappresentare una sorta di rivelazione all'interno della rivelazione cristiana, un risultato tardivo col quale i cristiani finiscono per perdonarsi a loro stessi di esistere. Oggi non si colpevolizza più molto. La confessione viene utilizzata raramente. Comunque ci sono state, fin dall'inizio, due interpretazioni cristiane della venuta di Gesù. Secondo l'interpretazione maggioritaria essa è il riscatto di uno sbaglio cosmico, riscatto che deve essere cruento e che è soltanto parziale. C'è poi un'interpretazione più ottimista, quella di Irene da Lione per esempio, secondo la quale Gesù è venuto per completare la creazione e per portare un messaggio. La sua funzione non è di essere vittima, egli avrebbe potuto benissimo non morire sulla croce, non era indispensabile. Su questo punto, forse, l'islam può dare qualcosa in più ai cristiani nella percezione della loro fede. Ovviamente la differenza di atteggiamento dei cristiani e dei musulmani sul mito fondatore dell'umanità implica un atteggiamento diverso nella vita di tutti i giorni. Si potrebbe riassumere il tutto dicendo che nell'islam tutto ciò che non è proibito è autorizzato? Nell’islam tutto quello che non è proibito è lecito T.R. Dipende, perché nell'islam esistono due campi che esigono due metodologie specifiche. Per ciò che riguarda il rapporto con Dio, il culto, le uniche pratiche autorizzate sono quelle prescritte nel Corano o nei testi della tradizione del Profeta. Le preghiere canoniche, l'imposta sociale purificatrice (la zakah), il digiuno, il pellegrinaggio seguono regole molto precise. Per tutto il resto, ovvero gli affari sociali, la morale in senso lato, tutto è permesso salvo ciò che è esplicitamente proibito. Il campo della proibizione è molto ristretto e la creatività trova qui un ampio spazio di espressione che è molto importante. E' questo che ha permesso all'islam dei primi secoli di raggiungere l'apogeo in campo legislativo, scientifico, culturale, ecc. I musulmani sono incoraggiati ad essere intraprendenti, creativi e curiosi. Questa dinamica positiva si è fermata ad un certo punto della storia a causa di circostanze sociali e politiche. Esse non hanno nulla a che vedere con il messaggio islamico che, come lei ha detto, permette tutto ciò che non è contraddetto da un precetto rivelato. E nel Testo ci sono poche proibizioni. J.N. In particolare le mortificazioni, l'ascesi, la penitenza, il celibato, il monachesimo, che costituiscono l'ideale del cristianesimo, un'espressione della perfezione religiosa, non sono per niente raccomandati nell'islam. I giovani cristiani che entrano in un ordine religioso, soprattutto se è contemplativo, abbandonano la loro famiglia. Essi non sono più tenuti a prendersi cura del sostentamento dei loro anziani genitori o, più semplicemente e più umanamente, a far loro compagnia nei giorni della vecchiaia e nei loro ultimi momenti. Essi abbandonano letteralmente la propria famiglia. E ciò per seguire un consiglio che è ripetuto in tre riprese nel Vangelo. Gesù dice: "Se tu non abbandoni tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, le tue sorelle per seguirmi e prendere la tua croce, non fai veramente parte di coloro che mi seguono". Confrontiamo queste parole con il versetto del Corano sui genitori:"Mio Signore, sii Misericordioso con loro poiché mi hanno allevato quando ero bambino". Sicuramente c'è un rispetto infinito verso i genitori, ma anche per tutta la famiglia. Nell'islam non si darà mai il consiglio: abbandonate la vostra famiglia, partite definitivamente e non rivedetela mai più. T.R. No, è vero. Nell'islam la relazione di carità verso i genitori viene subito dopo l'affermazione dell'unicità di Dio; la formula coranica dice:"Il tuo Signore ha decretato di non adorare altri che Lui e di trattare bene i vostri genitori ". Il senso della formula torna più volte nel Corano sotto forme diverse ma l'insegnamento è lo stesso. E' proprio la seconda dimensione dell'essere: essere con Dio e poi rispettare i propri genitori. Bisogna dire che nel Corano si trova anche l'idea che la famiglia, i bambini, i beni, possono diventare una tentazione rispetto a Dio, quando la relazione con la famiglia diventa esclusiva, egoista e fa dimenticare la responsabilità di fronte al Creatore ed all'umanità. In quanto esseri umani, siamo sempre messi nella condizione di riferirci alla nostra coscienza. Amare la propria famiglia è un'esigenza, non dimenticare mai Dio e gli uomini è un'altra, è necessario perciò trovare l'equilibrio che ci permetta di amare la propria famiglia all'interno dell'esigenza dell'amore verso Dio e della fraternità verso i propri simili. Esiste un rapporto intimo e sottile tra la verticalità e l'orizzontalità. E tutto ciò di cui lei ha parlato, la mortificazione, il fatto di liberarsi del mondo, ecc. non esiste poiché la prova degli uomini non è nella fuga dal mondo. La prova della fede è al contrario la vita nel mondo, nutrita ed armata della coscienza della padronanza e del limite. E questo in tutte le circostanze. Non c'è mai l'idea, per esempio, di mettere un termine alla vita sessuale come non c'è mai l'idea di mettere un termine alla vita sociale. L'idea centrale è di vivere con la coscienza delle proprie responsabilità e dominando la propria persona. Al cuore di questo cammino c'è il lavoro della spiritualità, la lenta iniziazione che mira a donare vita intensa al soffio che è in noi. La mistica musulmana vive esattamente alla luce di questo insegnamento che è la fonte dell'islam stesso. L'islam esige una mistica quotidiana anche alla base della vita sociale e di partecipazione. La pratica dei musulmani n’è un esempio, come il digiuno del mese di ramadan. Colpisce il fatto che i musulmani, nel nostro mondo moderno, restino così in massa attaccati alla pratica del digiuno anche se questa non è facile. Essi mantengono nella loro vita, anche se non fanno le preghiere quotidiane, un momento di distacco, di raccoglimento, di ricordo del Creatore e di vicinanza ai poveri. J.N. La sofferenza d'essere che è alla base del cristianesimo non è conforme a quello che i Vangeli dicono di Gesù: egli partecipa alle feste, si fa profumare, lo si trova in compagnia di persone poco raccomandabili come i pubblicani (collettori d'imposte che collaboravano con gli occupanti romani) e le prostitute. Ma quando si guarda un'icona o un quadro, egli non sorride mai: il Salvatore è infelice o tragico. Non ci sono rappresentazioni del Profeta Muhammad e il paragone sarebbe quindi difficile. Ma il Gesù severo e triste, il Cristo Pantocratore della Chiesa ortodossa, il sofferente sanguinante dell'iconografia tedesca è totalmente diverso dall'iconografia buddista. Buddha sorride. Per un cristiano è inquietante, ripugnante a vedersi. Come si può sorridere pregando? Il cristianesimo è una religione triste nelle sue manifestazioni, anche se moltissimi cristiani sono persone amichevoli, conviviali e sorridenti. In quanto cristiano ed in quanto cristiano praticante, mi aspetto dal contatto con le religioni che questa inclinazione della mia religione a mio parere perversa venga corretta. T.R. Non ci sono immagini che rappresentano il Profeta Muhammad. Le tradizioni autentiche ci riportano che egli non rideva mai in modo sguaiato o arrogante, ma sorrideva, scherzava, si divertiva, giocava molto spesso e non dimenticava mai di far star bene coloro che erano insieme a lui. Si distaccava dalla vita con la meditazione ed il raccoglimento, una serenità, una gioia nella fraternità, una semplicità nel voler bene, una convivialità, un umorismo dignitoso ed una costante giovialità. Voleva che una festa fosse una festa per chi avesse bisogno di vivere la festa... E' proprio il senso di questo versetto coranico:"Cerca con i beni che Allah ti ha concesso, la Dimora ultima e non dimenticare la tua parte in questo mondo, sii benefico come Allah lo è stato con te e non corrompere la terra ". La radice teologica della discordanza J.N. Vorrei continuare la discussione sulle differenze di tipo teologico. L'islam non è appassionato di teologia, nel senso che non si passa il tempo a speculare interminabilmente sulla natura di Dio: Dio è Dio, è unico e questo è tutto. Un musulmano non cerca di inventare Dio. Certi teologi cristiani sono della stessa opinione. Nicola di Cusa, per esempio, predicava la teologia negativa: l'unico discorso sensato che si può fare riguardo a Dio consiste nel dire ciò che Egli non è. Non è un idolo fabbricato dagli uomini. Asteniamoci dal definirLo, dal circoscriverLo, dal singolarizzarLo perché è sempre un modo per appropriarci di Lui. La teologia cristiana tradizionale ha fatto esattamente il contrario. A partire dal IV secolo il cristianesimo diventa religione ufficiale dell'Impero romano. Esso nasce da violente tensioni tra, da una parte, la Chiesa d'Occidente, che è allo stesso tempo greca e romana, tormentata da una tendenza filosofica e giuridica, organizzata a immagine dell'Impero romano, e dall'altra i cristiani orientali, stranamente i giudeo-cristiani, ovvero gli ebrei convertiti, ed anche molti arabi. Gli Orientali non sono per nulla attratti dalla formulazione classica della Trinità, cioè, Dio è una natura e tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito, mentre Gesù unisce due nature, divina ed umana, in una persona. Questa concezione filosofica costituisce forse uno dei punti più deboli del cristianesimo. Una volta all'anno si celebra la domenica della Trinità. La predica di questo giorno è sempre molto imbarazzante. L'uditorio sta col naso per aria e pensa ad altre cose. I preti insegnano ai cristiani che è importante credere alla Trinità secondo questa formulazione filosofica, di tipo ellenistico, che chiaramente non interessa più a nessuno perché la differenza tra natura e persona non vuole dire niente e ciò non cambia il comportamento di un cristiano nella vita di tutti i giorni. I teologi cristiani oggi insistono piuttosto sul cuore della fede cristiana: il fatto principale è credere in un solo Dio. Come articolare questa fede fondamentale con l'espressione della Trinità? Credere in Dio Padre significa credere nel Dio UNO, quello dell'ebraismo, del cristianesimo e delll'islam, che condividono la stessa fede nel Dio UNO. La parola Padre non viene utilizzata nel Corano per precauzione contro il politeismo. Nelle mitologie antiche gli dei hanno rapporti con le donne mortali e generano dei figli. Se si vuole predicare il monoteismo nel contesto dell'epoca, è necessario insistere sul fatto che Dio non è generato e non genera. E' chiaro che non si può utilizzare la parola "Padre". Quindi si può perfettamente comprendere che l'uso della parola Padre da parte dei cristiani sia inammissibile nella tradizione islamica ed allo stesso modo bisognerebbe che l'islam comprendesse che la parola Padre è utilizzata in modo assolutamente simbolico. Sarebbe potuto essere benissimo Madre, come non mancano di far notare certe femministe americane. Credere al Figlio di Dio significa credere alla rivelazione del Dio UNO nell'uomo-Gesù. Credo che questa formulazione sia allo stesso tempo cristiana ed ammissibile per un musulmano. Gesù è l'inviato, il Messia, la Parola del Dio eterno sotto figura umana. C'è qui una differenza? T.R. Nello stesso senso dell'interpretazione che lei dà, devo dire che ho sentito dalla bocca dei cristiani molti modi di tradurre la Trinità. In tutti, l'idea centrale - e da questo punto di vista credo che molti musulmani debbano ascoltare ciò che dicono i cristiani della loro fede - che noi crediamo in un Dio unico che non è rappresentato sotto forma umana o sotto altra forma. E' in questa prospettiva che il Corano ci insegna e ci ordina di rispettare il monoteismo cristiano. In quanto alla Trinità, l'imbarazzo che lei nota e che certi teologi a volte traducono è effettivamente inquietante. Difficile perciò andare al di là di questa inquietudine. La mia esperienza di dialogo interreligioso mi ha insegnato che i discorsi razionali sulla Trinità vanno a finire nella formulazione del suo "mistero". Mi attengo perciò alla dimensione di rispetto del "mistero della Trinità". Mi sembra l'unica posizione onesta rispetto a ciò che i cristiani dicono di loro stessi. Ci ritroviamo sul principio che Dio è unico e che ha inviato dei profeti. Difficile dire di più: il principio della Trinità non rientra nell'ordine della logica razionale, bisogna quindi rispettare il fatto che per i cristiani ci siano altre cose. E' necessario prendere atto e riconoscere un punto fondamentale di disaccordo tra l'islam e la tradizione cristiana oggi maggioritaria (la questione del riconoscimento di Muhammad, certo, resta ugualmente problematica). J.N. Proverò a definire ciò che rappresenta la terza persona della Trinità per i cristiani. Credere nello Spirito Santo significa credere nella forza di potenza efficace di Dio nell'uomo e nel mondo. Anche per l'islam Dio è la guida ed il soccorso, vicino e presente ai credenti ed alla comunità dei credenti, invisibile e nondimeno potente, inafferrabile e nondimeno indispensabile per la vita più di quanto lo sia l'aria, il vento, il respiro, il soffio di vita. La parola utilizzata in ebraico per designare lo spirito è assolutamente concreta, rhua in ebraico; pneuma in greco; esprit in francese. Ma come ben si vede, quando si arriva al termine esprit in francese, a quel punto gli occidentali hanno tendenza ad astrarre. E' così, a me pare, che l'affermazione della vicinanza di Dio all'uomo, come nella citazione del Corano "Gli è più vicino della sua stessa vena giugulare", della sua presenza nello spirito per mezzo dello spirito, come spirito, abbia senso anche per il musulmano. Questa presentazione dello spirito di Dio è accettabile per lei? T.R. Sì, in effetti l'espressione di questa vicinanza traduce bene la percezione della presenza del divino, di Dio per noi. Mai nella confusione o nel panteismo, ma proprio nella vicinanza al cuore e all'intimità. Vicinissimo a noi, dunque, secondo questo significato di vicinanza. Lei ha citato una formula coranica; ce n'è un'altra che dice:"Se i miei servi ti fanno domande su di Me, sicuramente Io sono vicino". Capita spesso che sentiamo un cristiano parlare della sua fede nella vicinanza, tramite questa energia spirituale... Non c'è assolutamente alcuna divergenza tra di noi riguardo alla vicinanza del divino e della fede. In realtà è la formulazione razionale e il nocciolo della Trinità che costituiscono un problema. La questione è certo essenziale ma non penso che a valle, nelle conseguenze che ci possono essere nell'atto di colui che crede alla presenza del Creatore, ci siano delle divergenze così importanti. Il dibattito teologico non è chiuso o, se lei vuole, si arriva ad un limite nell'interpretazione degli uni e degli altri, ma alla fine, ciò che deve interessare anche noi in questo rapporto tra l'islam ed il cristianesimo o tra l'islam, il cristianesimo, e il giudaismo, è quello che la fede fa di noi nella vicinanza che noi abbiamo col Creatore. Da questo punto di vista condividiamo profondamente l'esigenza del dialogo con Dio e dell'azione coerente davanti agli uomini. Tre religioni strettamente legate dalla storia J.N. E' necessario ricordare al lettore che le tre fedi monoteiste si succedono, che c'è una filiazione tra di loro e che non si sono sviluppate indipendentemente. L'origine comune si situa quaranta secoli indietro con l'errare di Abramo, un beduino nomade, insieme alla sua gente tra l'Irak e l'Egitto: è il primo a scoprire la fede monoteista in modo confuso e contraddittorio. L'origine comune si trova anche nella storia di Mosè, quando le tribù d'Israele escono dall'Egitto ed un popolo per la prima volta preferisce la vita dura del deserto alla sicurezza della schiavitù in un paese ricco. Infine, la stretta relazione tra l'islam ed il cristianesimo, al di fuori del giudaismo, ha la sua fonte in Gesù di Nazareth. Muhammad, nel VII secolo, è il Profeta dei popoli che non erano stati toccati fino a quel momento dalla predicazione del monoteismo. Potrebbe spiegarci brevemente il contesto religioso, politico e sociale nel quale inizia la sua missione? La terra della sua missione è la penisola araba. T.R. Certo. Al momento in cui inizia la rivelazione, il Profeta ha quarant'anni e vive nella penisola araba, più precisamente a La Mecca. Essa aveva al suo centro la Ka‘bah ("il cubo") ed era allora un luogo di pellegrinaggio e di fiere per le tribù politeiste che vivevano nei dintorni e che adoravano idoli. Esistevano anche dei monoteisti e delle piccole comunità cristiane ed ebraiche. Sarà soprattutto nel contesto di Medina che la vicinanza di questi ultimi diventerà importante. Il Profeta è dunque a contatto con ebrei e cristiani e con individui che vivono in quella regione e praticano un monoteismo naturale, rifiutando il politeismo locale; nella tradizione musulmana si chiamano hanif, lo stesso termine impiegato per descrivere Abramo. L'emergere, in quel momento, di questo monoteismo semplice, naturale, puro, s'identificherà immediatamente con gli insegnamenti dell'islam appena rivelato con, in più, l'istituzione della chiara filiazione, annunciata molto rapidamente dalla rivelazione coranica, dell'islam dal giudaismo e dal cristianesimo. Molto presto la persecuzione diventerà la regola. I primi credenti subirono, pazientarono e resistettero passivamente per circa tredici anni, poi furono costretti all’esilio verso Medina nel 622. E' l'ègira. Da questo momento il messaggio si diffonderà ampiamente. Lei ha ragione quando dice che il monoteismo musulmano risale direttamente al Profeta Abramo, espressione forte del monoteismo sincero, avendo egli riposto la sua fede totalmente nelle mani di un solo Dio (anche se per noi il monoteismo si manifesta già con Adamo, Abramo non è il "primo" monoteista). L'insieme degli altri profeti da Adamo a Noè, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe e tanti altri, sono compresi nella tradizione musulmana. E' questa tradizione monoteista che con il messaggio dell'islam si risveglia nella penisola araba contro il politeismo. Lei ha sottolineato, or ora, che Muhammad viene inviato ad un popolo che fino a quel momento non aveva avuto profeti (cosa che per noi è molto relativa se teniamo conto della genealogia che risale ad Ismaele e ad Abramo: il Corano cita il fatto di questo primo profeta ma con un significato molto preciso). L'importante per i musulmani è la fede e la convinzione che si tratta dell'ultimo messaggio. E' una convinzione che traduce un rapporto con l'universale perché ci si trova di fronte alla rivelazione. A volte questo viene frainteso ma è un punto centrale della dottrina del musulmano. Il che non vuol dire negare le altre fedi ed il pluralismo, assolutamente, ma anzi che il messaggio non è indirizzato esclusivamente agli arabi, contrariamente a quello che credeva Chateaubriand nel XVIII secolo, quando diceva "la religione degli arabi" per parlare dell'islam. Questa rappresentazione è in totale opposizione con la convinzione dei musulmani e non corrisponde più alla realtà delle cifre poiché gli arabi rappresentano oggi meno di un quarto dei musulmani del mondo. J.N. Il popolo musulmano più numeroso è costituito dagli Indonesiani e non dalle nazioni arabe. T.R. Esattamente. J.N. Agli albori dell'epopea islamica, che in un secolo porta gli eserciti musulmani da La Mecca fino a Poitiers, i giudeo-cristiani scompaiono. Non ne restano più oggi, se non qualche decina di famiglie ebraiche che vivono in Israele e praticano il cristianesimo in un'atmofera di sospetto e disapprovazione, come ben possiamo immaginare. Questa scomparsa di una componente della cristianità è davvero stupefacente. Simultaneamente, i cristiani orientali d'ispirazione greca vivono ancora non solo nei territori dove Bisanzio li protegge, ma anche in Egitto, in Palestina, nel Libano, in Siria e in Irak. A Gerusalemme, invece, i giudeo-cristiani scompaiono completamente. E' forse il momento di chiedersi che cosa è successo, perché una comunità sia stata così radicalmente cancellata dalla storia. Nei primi secoli della cristianità si sono tenuti una serie di Concili nei quali si è cercato di definire la natura del Cristo - quello che ha portato alle discussioni sulla Trinità menzionate sopra. Violente opposizioni si manifestano tra orientali ed occidentali, semiti e greci. La volontà di definire la natura di Dio e di Gesù deriva da uno spirito filosofico e giuridico intollerabile per gli orientali. Si può quindi supporre che i giudeo-cristiani siano diventati musulmani semplicemente perché non condividevano queste discussioni filosofiche. Non solo non le comprendono, ma trovano che l'affermazione di un Dio unico è abbastanza forte per non correre il rischio di andare oltre. Il successo iniziale dell'islam deriva dal fatto che recupera metà della cristianità, cristianità che è attraversata da scismi. A parte i cristiani uniti a Roma, c'è un rigoglio di sette: ariani, nestoriani, monofisiti, doceti, pelagiani. Una sorta di insalata teologica dove ciascuno afferma, in opposizione agli altri, la propria visione particolare di Gesù, del quale si pretende ora che non era veramente uomo ora che non era veramente Dio, con tutte le varianti possibili ed immaginabili. Tutti questi eretici hanno in comune il fatto di essere soprattutto orientali che, per tradizione, non sopportano né la filosofia greca, né il diritto romano, né l'arroganza occidentale nell'appropriarsi dell'eredità spirituale di Gesù. Da questo punto di vista, si può considerare Muhammad come un riformatore radicale del giudeo-cristianesimo. Più tardi nella storia, nel XVI secolo nasceranno dei nuovi riformatori, questa volta in Occidente: Calvino, Zwingli, Lutero, ecc., come se fosse necessario tornare all'essenziale ad intervalli regolari con una correzione spesso violenta. Questo modo di presentare il sorgere dell'islam le sembra accettabile per un musulmano? T.R. L'interpretazione musulmana della storia delle religioni è che Dio ad intervalli regolari invia dei profeti per riformare e riorientare la fede degli uomini in rapporto all'essenziale. L'analisi che farebbe un cristiano dicendo: "Può darsi che Muhammad sia venuto per riportare la tradizione al suo centro", corrisponde alla nostra interpretazione, con la differenza che, qui, lei lo presenta come un caso specifico per un dato movimento. Per i musulmani è cosa certa che Muhammad, il Profeta dell'islam, è venuto per riformare e riorientare verso l'essenziale, e ciò in particolare nel caso del cristianesimo (che è percepito come una deviazione dal messaggio originario fondato sull'assoluta unicità divina). E' chiaro che un certo numero di cristiani, in particolare i giudeo - cristiani, si sono totalmente riconosciuti in questo messaggio essenziale, presentato e vissuto lontano dalle dispute teologiche, che a loro sembravano molto oscure, e delle quali, infatti, pareva non ne comprendessero i termini, neppure i significati nelle loro formulazioni greche. La referenza ellenistica ha ugualmente costituito un problema per i sapienti musulmani influenzati dal modo di elaborare i riferimenti e le nozioni astratte. Un musulmano non è scioccato dal fatto che si presenti il Profeta dell'islam come un riformatore. E' così che egli stesso viene presentato, come un riformatore ed un continuatore. Nel Corano gli viene ordinato di dire:"Non sono un innovatore tra gli inviati". E' vero in rapporto a certi movimenti cristiani che sentirono il richiamo della semplicità dell'islam, ma più generalmente è una posizione di principio di fronte a tutte le religioni precedenti. J.N. Insomma, ci sono due componenti nella costituzione dell'islam primitivo. Da una parte i pagani della penisola araba che si sono convertiti dal politeismo al monoteismo; dall'altra, questa fagocitosi della metà del mondo cristiano, quella che derivava dalla conversione dal giudaismo. E' sorprendente che, negli stessi territori in cui il giudeo-cristianesimo scompare, si trovino delle comunità che praticano il giudaismo, le quali non si sono convertite all'islam. Del resto il conquistatore musulmano non li forza. Non c’è costrizione nella religione Un versetto del Corano afferma:"Non c'è costrizione nella religione". Per principio, l'islam chiede un'adesione volontaria, impegnando l'individuo con la sincerità del suo cuore. Per principio non si obbliga alla conversione con la spada. Ciò non significa che in pratica potentati locali non abbiano esercitato delle pressioni considerevoli. Ma l'aspetto sorprendente è fino a che punto gli ebrei si siano mostrati resistenti alla conversione. Forse perché l'islam non portava loro nulla di nuovo, nulla che li potesse sorprendere e sedurre. T.R. In effetti, forse è così. Senza dubbio bisognerebbe, per spiegare questa specificità, fare uno studio un pò approfondito sul tipo di rapporto che gli ebrei hanno potuto avere e hanno con la loro religione e che è stato e resta diverso dal tipo di rapporto che i cristiani hanno sviluppato con la loro. Mi pare evidente che gli ebrei si siano ritrovati nel monoteismo esigente che praticavano i musulmani e che non vi era nulla di nuovo per loro riguardo a questo elemento essenziale della fede. Il riferimento al sangue ed il carattere particolare del legame sociale che il giudaismo ha ben presto generato nel mondo, ha senza dubbio provocato questo tipo di resistenza. Non bisogna dimenticare le circostanze storiche: ci sono stati ben presto conflitti e problemi di alleanza politica tra musulmani ed ebrei, già a Medina. A dir la verità, per entrambe le tradizioni, dovrebbe esistere tolleranza, accettazione e rispetto per le rispettive fedi. Molti cristiani sono rimasti cristiani. Non bisogna più idealizzare la storia dell'islam che è la storia dei musulmani, dunque di esseri umani, che non sempre sono stati fedeli agli insegnamenti della loro religione e che a volte hanno ingiustamente costretto, vessato, umiliato, perfino ucciso. Non c'è dubbio sulla realtà di questi fatti che furono l'eccezione più che la regola ma dei quali bisogna ricordarsi per denunciarli. J.N. La conquista iniziale dell'islam è dunque in parte di tipo missionario. Non è l'azione di qualche beduino uscito dai deserti d'Arabia che arriva a crearsi un impero. Sono mercanti, sono commercianti, sono carovane, certamente sono anche eserciti, è chiaro, poiché il potere politico è nelle loro mani dall'Arabia alla Spagna. Un'altra spiegazione del successo dell'islam, che può del resto coesistere con la prima, è che i giudeo-cristiani ed i cristiani orientali in generale avevano fatto parte dell'Impero Romano. Nel momento in cui si installa un nuovo potere, essi hanno fatto quello che spesso fanno i notabili: si mettono dalla parte di chi comanda. Gli ebrei, loro, erano abituati a sopravvivere al di fuori del potere o contro il potere. Hanno sempre avuto un rapporto difficile con i governanti: talvolta servivano il potere come collettori d'imposte, talvolta si offrivano ai principi e, di quando in quando, sono stati perseguitati soltanto perché erano divenuti ricchi facendo il mestiere di finanzieri. La costituzione di un grande impero nel Nord Africa determina la conversione spontanea dei cristiani, tanto che nel Maghreb non resta più nessuna comunità cristiana mentre restano delle comunità ebraiche. A Marrakech o a Djerba si possono ancora trovare comunità di questo tipo a volte vecchie di venti o trenta secoli. Queste considerazioni hanno lo scopo di mostrare al lettore occidentale che la relazione tra le religioni monoteiste non è stata sempre inscritta in un rapporto di forza. Se si vuole parlare di conversioni forzate, queste ci sono state soprattutto nel XVI secolo in Spagna durante la riconquista da parte dei re cattolici Fernando ed Isabella. T.R. La ringrazio per aver ricordato verità troppo spesso dimenticate. Questo permette di fare giustizia di una visione monca dell'islam che si sarebbe diffuso solo con la sciabola e la spada, in poche parole con la forza. Bisogna identificare in questa storia un certo numero di fattori oggettivi che hanno permesso una così rapida espansione ed è ciò che lei ha appena fatto. Pretendere che tutto sia stato fatto con la violenza, la guerra, la colonizzazione omicida è una falsità che non regge all'analisi dei fatti, poiché non lo si può fare in cento anni solo con la spada ed imponendosi con la forza. C'è stato un interesse religioso, è evidente, ma anche politico, economico, sociale e talvolta culturale. Si sono verificate situazioni di guerra, ed anche questo è certo, ma non sono state affatto la chiave del successo e dell'accettazione dell'islam in blocco da parte di popolazioni straniere. Quest'altra visione ci permette di ridimensionare enormemente l'idea di un islam conquistatore e guerriero di natura. Spero che il modo in cui lei ha presentato le cose permetta al lettore di ridimensionare questo approccio e, in ogni caso, di rivederlo. J.N. Mi sono permesso di insistere sul contesto storico lontano per distruggere l'immagine da epinicio di un islam conquistatore e intollerante. Al termine del secondo millennio cristiano, l'Occidente ha trionfato sul suo grande nemico tradizionale, il comunismo. L'ultimo "nemico" che resiste all'impresa culturale dell'occidente è l'islam. Per definizione, un musulmano non si converte, non solo perché la cosa è considerata un abominio nel suo ambiente, ma anche perché non ne ha molta voglia. La presenza francese nel Maghreb per più di un secolo, con tutto il prestigio che poteva avere l'occupante francese, non ha causato una conversione massiccia degli algerini, a parte casi isolati, rarissimi, malgrado tutto l'interesse che una tale conversione avrebbe potuto avere per beneficiare della compiacenza dell'occupante. La fonte del conflitto attuale tra l’occidente e l’islam L'Occidente si sforza di convertire tutte le culture alla mondializzazione, al dominio del denaro, alla produttività, alla diffusione di una sotto-cultura audiovisiva a base di violenza, sesso, bramosia di beni materiali, rifiuto di ogni norma trascendentale. La Cina, il Giappone, la Thailandia, le Filippine si sono lasciati sedurre. Ma questo non porta loro la ricchezza che si aspettavano come dimostra la crisi attuale. La resistenza all'Occidente secolarizzato, mercantile, incolto, l'unica resistenza organizzata viene dall'islam, che è in un certo senso inassimilabile. Ci sono stati momenti molto forti in questa resistenza. Il popolo iraniano si è rivoltato contro lo scià Reza Pahlavi, perché questi voleva un'eccessiva occidentalizzazione. La nostra conversazione proseguirà ora focalizzandosi sul rapporto singolare che lega due religioni cugine, le quali hanno dato vita a due culture opposte. Cerchiamo di liberare il terreno dalle mine, di far vedere che l'islam non è il nemico dell'Occidente, che in alcune sue peculiarità, in certi suoi irrigidimenti, esso tenta di preservare qualche cosa di essenziale, non solo essenziale per il mondo arabo o per l'islam, ma essenziale per l'umanità. Questa resistenza costituisce forse una possibilità per l'umanità di fronte al politeismo d'oggi, cioè il denaro, il potere, la tecnica, il sesso, la violenza, il rumore, la negazione astuta o brutale di ogni spiritualità, di ogni morale, di ogni trascendenza. Questi sono gli idoli d'oggi. L'Occidente vive in uno stato di ateismo pratico. La sua fede tradizionale sta morendo per esaurimento interno, nelle sue contraddizioni, per incapacità di prendere le distanze dal potere economico e politico. T.R. Lei ha utilizzato una formula sulla quale convengo, se ha la precauzione di dire "un certo Occidente". La visione di un Occidente che si troverebbe di fronte l'islam come nemico può essere foriera di connotazioni pericolose e bisogna essere prudenti. Ho trascorso tutta la mia vita in Occidente e so che questo "Occidente" non è uno solo, ma ha molte sfaccettature e che vi sono una pluralità di prese di posizione. Rifiuto la semplificazione in un senso come nell'altro, quando si presenta l'islam superficialmente e gli viene attribuito tutto ciò che viene commesso dai gruppi radicali ed estremisti. L'Occidente, così come si offre attraverso l'ideologia del modernismo, per esempio, con il culto del solo rendimento, della produttività, del successo immediato, della competizione cieca e disumana, del predominio della tecnologia e del progresso a qualsiasi costo, tutte queste constatazioni, che esprimono effettivamente uno dei volti dell'Occidente, sono sì in totale contraddizione con i valori della civiltà islamica. L'islam per natura e per essenza è inassimilabile a questo modo di vivere e di pensare, perché il principio avrà sempre la preminenza sull'efficacia. Ma sottolineare questo, riguardo all'islam, vuol dire anche che i musulmani incontreranno molti partners che, come lei stesso ha spiegato, subiscono passivamente e si lasciano trascinare dagli eccessi di una civilizzazione a corto di punti di riferimento. Ci sono tantissimi uomini e donne in Occidente, sia cristiani, laici, o di tutt'altra tradizione religiosa, che, rispetto alla situazione attuale, denunciano il loro malessere ed organizzano una vera e propria resistenza. E' troppo semplice dire l'Occidente contro l'Islam. E' vero, il mondo musulmano manifesta oggi una resistenza forte e quasi generale. Ma non è solo contro tutti, e le donne e gli uomini di coscienza e di buona volontà non mancano in entrambe le sfere, purché prendano la parola e si riconoscano compagni ed amici nella stessa lotta per la dignità. Amo molto ricordare le parole di un uomo di fede, di coscienza, d'umiltà e di grande rigore intellettuale che mi ha dato tanto nella vita: Pierre Dufresne, che è stato redattore capo del giornale Le Courrier, a Ginevra. Egli aveva l'abitudine di dire: non bisogna sbagliare nemico. Voleva sempre che il dialogo andasse più in là fino al coinvolgimento comune, per lo meno alla concertazione, tra gli uomini di fede e di coscienza. E' vero, bisogna agire e non sbagliare nemico. Penso che dobbiamo resistere insieme contro tutti i nuovi profeti del rendimento, dell'efficacia, di questo nuovo apparato idolatra nella sua espressione moderna, all'altare del quale sono sacrificate la dignità e la vita nella sofferenza e nell'esclusione. L'Occidente è questo ma non solo. L'Occidente è anche fatto di resistenze, di cristiani impegnati, di ebrei con la coscienza viva, di laici. Bisogna penetrare in queste sfumature e profondità per poter sviluppare un dialogo che sia coerente. Ho molti amici di diverse sensibilità religiose e tendenze politiche, ai quali mancherei di rispetto lasciandomi andare alla semplificazione e all'esagerazione. Sono François, Alain, Marco, Philippe, Michèle, Jean, Erica, Serge, Christian, Elisabeth, Pierre e tanti altri... Ciascuno con una coscienza, un cuore, determinati a resistere, per Dio, per la loro idea dell'uomo e contro le sue follie. Sono i miei compagni di strada. Essere contro l'Occidente non vuol dire granché. Essere contro gli eccessi dell'Occidente e della sua violenza simbolica, a proposito del modello di vita che vuole imporre, mi sembra un indice di buona salute spirituale, intellettuale e morale che molti esprimono oggi. Le alleanze costruttive sono possibili, tutte insieme diventano un imperativo. J.N. Affinché non ci siano fraintendimenti, precisiamo subito che questa alleanza non è stata fatta tra integralisti, tradizionalisti e fondamentalisti di entrambe le religioni. Ad un certo punto, in determinate circostanze, i membri dell'Opus Dei o la setta integralista di Mgr Lefebvre potrebbero forse finire per capirsi con quello che c'è di più integralista nell'islam, per esempio i talibani. T.R. Lei ha ragione a mettere in evidenza il fatto che si potrebbe immaginare, e soprattutto quando si utilizza il termine "alleanza", che si tratti di un gruppo degli ultimi convinti radicalizzati. In realtà l'avvicinamento che noi proponiamo qui è tutt'altro. Si tratta di avvicinare persone, esseri, che in nome della loro fede o della loro coscienza, hanno l'esigenza di un'umanità dignitosa. L'Occidente ha prodotto una coscienza della dignità umana che troverebbe eco tra gli intellettuali ed i credenti musulmani, se soltanto dedicassero una parte del loro tempo a discutere insieme. Purtroppo ci si ferma troppo spesso da entrambe le parti alle rappresentazioni caricaturali dell'altro. Dovremmo avere l'intelligenza di non cadere nella trappola. La forza del sistema dominante attuale sta nella sua capacità di dividere i nemici e dar loro l'impressione che non possano collaborare insieme. E' una strategia elementare che resta molto efficace. Gli stessi che sviluppano, ad esempio, un atteggiamento critico rispetto ai media - quando questi giocano il ruolo del modello ultraliberale- cadono nella sua trappola e si lasciano influenzare dalla logica sommaria ed uniformatrice degli stessi media quando descrivono il mondo "oscurantista" dell'islam. La logica di difesa del sistema e dei suoi interessi è pertanto la stessa, alla fine bisognerebbe rendersene conto. Questo fenomeno funziona a più livelli ed è nostra responsabilità comune distruggere i modelli di rappresentazione ed i discorsi approvati dal sistema dominante e disumano per arrivare allo scopo della nostra resistenza e sviluppare una collaborazione responsabile. Purtroppo, quante donne e quanti uomini sono aperti e difendono posizioni di tolleranza e di rispetto nella loro società e si fermano quando si tratta dell'islam? Osiamo suggerir loro che il sistema al quale non vogliono sottomettersi rivela, in modo sottile e loro malgrado, la sua formidabile efficacia ritorcendosi contro loro stessi? Resistendo al sistema, ne diventano inconsapevolmente i guardiani per via delle rappresentazioni semplificatrici e pericolose che essi hanno rispetto a ciò che non è "occidentale" e in primo luogo all'islam. Efficacia temibile e machiavellica di un sistema che riesce a fare dei suoi più ardenti oppositori interni degli alleati nei confronti di ciò che è percepito come "esterno". Per riuscire in questa impresa, alla "megamacchina", per parlare come Latouche, è sufficiente manipolare la rappresentazione che si ha di coloro che gli fanno resistenza -ma all'esterno del campo di riferimento occidentale- per farne un pericolo inquietante. Forse dovremmo imparare, gli uni e gli altri, a non cadere nella trappola che consiste nel considerare gratuite ed innocenti le rappresentazioni superficiali e monche che ci propone l'enorme macchina contro la quale diciamo di voler resistere. L'islam guardato con sospetto Vorrei che mi fosse concesso di raccontare un'esperienza personale. Per molti anni sono stato impegnato in progetti umanitari ed avevo fondato con alcuni insegnanti un'associazione per la promozione della "pedagogia della solidarietà" all'interno di un'istituzione scolastica ginevrina. La nostra funzione - eravamo allora insegnanti delle scuole superiori - esigeva che non ci dessimo alcuna etichetta, né religiosa, né politica, e, in quanto presidente, mi attenevo strettamente e scrupolosamente a questa regola. Il progetto era stato accolto in modo così straordinario che ne restammo sorpresi e, da parte mia, continuavo a ricevere manifestazioni di rispetto, simpatia ed incoraggiamento. Dopo dieci anni di intensa attività volta a difendere la fondatezza della pedagogia della solidarietà e della responsabilità, ho deciso di orientare il mio impegno in una direzione che era il prolungamento naturale di questo lavoro educativo. Ho dato le dimissioni dal posto di presidente e allo stesso tempo dal posto di docente che occupavo a quell'epoca con l'idea di continuare una missione simile. Avevo passato il tempo ad insegnare ai giovani a rispettare gli altri, i giovani, gli anziani, i bisognosi, gli emarginati, ecc.; a sviluppare in loro la coscienza solidale e responsabile; ad aprire i loro cuori e i loro occhi sulla realtà della pluralità delle civilizzazioni, delle religioni e delle culture. Avevo organizzato incontri, visite, viaggi in India, nell'America del Sud, in Africa. Abbiamo incontrato Dom Helder Camara, Sorella Emmanuelle, Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama, Edmond Kaiser, Hubert Reeves, Albert Jacquard, l'abbé Pierre e tanti altri uomini e donne... Con ciascuno di loro ho allacciato relazioni amichevoli e spesso profonde. Non avevo anche, in quanto musulmano di origine egiziana, una ricchezza da condividere? Non essendo più legato a livello della vita pubblica dalle necessità della mia funzione, mi è parso normale fare lo stesso lavoro ma dall'interno e di spiegare la mia religione e la mia civiltà, che vedevo così mal conosciuta e maltrattata. Ma da allora tutto è cambiato. Alcuni, qualche amico e qualche vecchio collaboratore hanno capito che il mio cammino era lo stesso, che non ero cambiato e che mi animavano la stessa esigenza umanitaria e la stessa apertura di spirito; ma moltissimi sono caduti nella caricatura, nella semplificazione, nel rifiuto. Il compagno di resistenza di ieri era diventato un "integralista", un "fondamentalista", un "estremista" astuto. I fantasmi sull'islam erano presto riapparsi fino a diffondere il dubbio sulle attività passate che, fino a ieri, erano state ben accolte. Ho persino visto colleghi che mi proibivano di parlare. Ho capito che la strada sarebbe stata lunga, che il lavoro di informazione e di spiegazione era enorme perché i pregiudizi ed i sospetti erano profondi anche tra coloro che professavano idee progressiste ed umanitariste. Le loro stesse idee diventavano la garanzia della fondatezza della loro chiusura di spirito rispetto all'islam, poiché, tutto sommato, non li si poteva sospettare di essere reazionari chiusi ed intransigenti. Donne e uomini che non avevano smesso di pronunciare parole come "dialogo", "pluralità", "tolleranza", "rispetto", "solidarietà" si irritavano, diventavano chiusi e a volte stranamente ottusi di fronte all'islam considerato attraverso il prisma di tanti luoghi comuni conservati... I rifiuti che ho dovuto affrontare allora mi hanno ferito ma mi hanno insegnato molto: alla fine, tutte le belle parole dette sopra non significano nulla se sono pronunciate da spiriti che non si lasciano penetrare dalla profondità della loro esigenza. E' un lavoro quotidiano che ci deve spingere ad analizzare ed a valutare i nostri atteggiamenti rispetto all'altro in modo profondo e sempre ponderato. Con cuore e lucidità. In sostanza è un'alleanza di esseri umani che si impongono questo cammino che io chiamo delle mie aspirazioni. E' possibile, ne sono convinto. Non mi voglio più fermare solo ai buoni sentimenti perché ho visto troppi uomini e donne parlare d'amore, di attenzione e di solidarietà e considerare gli esseri umani che avevano di fronte solo attraverso pregiudizi e luoghi comuni mediatici deplorevoli e pericolosi. La collaborazione di cui parliamo non può essere un legame solo superficiale, ma la realtà di un incontro esigente, di un dialogo nel quale nessuna domanda è proibita tanta è la preoccupazione di capirci per meglio accompagnarci reciprocamente. Non conosco oggi un altro atteggiamento veramente rispettoso di quello che è l’uomo. La nostra fede e le nostre rispettive coscienze ci invitano a ciò, credo, ed è questo l'oggetto del presente lavoro. |
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Jacques Neirynck e Tariq Ramadan: Possiamo vivere con l'Islam?
Prima edizione italiana ottobre 2000 / shaban 1421 © Edizioni " Al Hikma" 2000 per la traduzione italiana Ed. “Al Hikma” C.P. 653, 18100 Imperia Tel. 0183.767601, fax 0183.764735 e-mail: alhikma@uno.it Titolo originale dell’opera " Peut-on vivre avec l’ Islam" © Édition FAVRE SA 1999 Lausanne, Suisse Il libro può anche essere acquistato a vantaggiose condizioni sul sito: www.libreriaislamica.it |
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