Possiamo vivere con l'Islam?
Il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni laiche e cristiane.
di Jacques Neirynck e Tariq Ramadan
Titolo originale dell’opera: "Peut-on vivre avec l’ Islam"*

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Scheda introduttiva Introduzione Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6

 Capitolo 3

La posizione della donna nell'Islam

Un argomento di contraddizione e di malintesi

argomento che non si può aggirare. In qualsiasi società l’esame di questa condizione permette di scoprire i punti di forza e di debolezza, sia perché la metà degli esseri umani sono donne, sia perché la posizione della donna permette di capire la famiglia, che resta la struttura fondamentale di tutte le società. Permette di verificare in quale misura l'uguaglianza di tutti gli esseri umani è enunciata e rispettata.

Nel caso dell'islam l'argomento è particolarmente delicato perché l'Occidente nutre un sospetto generalizzato sulla condizione nella quale è tenuta la donna musulmana. Certo, si dovrà fare la distinzione fra quello che raccomanda il Corano, la sua applicazione concreta nelle diverse società islamiche e infine l'immagine che l'Occidente si fa di questa condizione.

In partenza ci sono certamente una serie di malintesi, di contraddizioni e di paradossi. A titolo d'esempio l'islam gode della curiosa reputazione di essere allo stesso tempo lassista e rigoroso in materia di sessualità.

Quando l'Occidente riscopre l'islam nel XVIII secolo, la spedizione di Napoleone in Egitto è stata un appuntamento mancato. Ufficiali e sapienti riportano un'immagine della donna tale che i viaggiatori scapoli possono sperimentarla. Questa esperienza limitata ha creato in Occidente l'idea di un paese di sogno in cui le donne sono seduttrici e voluttuose. Tutta la pittura del XIX secolo, Ingres ad esempio, fa allusione a questo Oriente mitico e voluttuoso. Non è più di moda scegliere i temi della mitologia greco-romana: l'Oriente serve da mito di sostituzione.

Durante questo secolo, man mano che i paesi arabi acquistano la loro indipendenza e la loro autonomia, l'Occidente stupefatto scopre che i paesi islamici sono al contrario molto severi. Di là nasce un atteggiamento di dubbio e di sorpresa: l'islam è più o meno repressivo nella sessualità che il cristianesimo? I musulmani sono libertini o puritani? L'eccesso stesso delle qualificazioni, l'oscillazione tra due estremi mostra la difficoltà di farsi un'idea semplice e chiara.

Prendiamo il caso della poligamia, che rappresenta nell'immaginario degli occidentali la grande differenza tra cristiani e musulmani per quanto riguarda la condizione della donna. Consideriamo Luigi XIV, il re cristianissimo, sposato a una sola donna alla quale, si deve pensare sia fedele, ma che mantiene una serie di favorite, con le quali ha figli riconosciuti e nobilitati secondo un costume ben stabilito: essere di sangue blu ha la priorità sulle condizioni di legittimità. I bastardi di re e nobili cristiani occupano dappertutto posizioni importanti nel governo, nell'esercito e nel clero. In pratica Luigi XIV mantiene un harem che non è molto diverso da quello del suo collega d'Istanbul, il sultano degli Ottomani. L'unica differenza è che da parte turca è ufficiale e da parte francese è ufficiosa, cioè è allo stesso tempo fuori legge e conforme ai costumi. Nessun sultano ha mai immaginato che il fatto di avere un harem potesse costituire un peccato morale. Al contrario Luigi XIV soffriva grandi angosce. In occasione dei suoi spostamenti l'accompagnava un prete per confessarlo nel caso avesse un incidente. Sul letto di morte, una delle sue ultime parole al suo erede, il futuro Luigi XV, è stata di dire che soffriva molto, ma che desiderava soffrire ancor più per espiare tutti i peccati di vanità e di sensualità che aveva commesso. Un discorso del genere sarebbe inconcepibile sulle labbra di un sultano: egli muore rimpiangendo i piaceri di cui la morte lo ha privato.

Riassumendo, si può dire che l'Occidente cristiano proclama un grande rigore ma consente tutte le eccezioni che lo rendono sopportabile mentre nell'islam le esigenze sono più realiste ma più rigide? La posizione cristiana è massimalista, quella islamica è minimalista; la legge è considerata nel primo contesto come il soffitto e nel secondo come il pavimento.

Gli occidentali fraintendono questo realismo islamico unito ad una fedeltà ferrea. E' questo paradosso che rappresenta la grande differenza d'atteggiamento delle due culture di fronte alla donna?

TARIQ RAMADAN Se si giudica in base al testo del Corano e in base a come vivono effettivamente i musulmani, la relazione tra l'uomo e la donna è all'insegna del rigore. Ma non ci si può fermare a questa sola constatazione. Quando si tratta l'argomento della donna nell'islam, bisogna far la differenza tra quanto si trova nei testi, e che costituisce il riferimento per i musulmani, e le cose che avvengono nelle società a maggioranza islamica e che spesso non sono, ed è il meno che posso dire, in accordo con le fonti scritte.

Ci sono spesso gravi equivoci nel dibattito sulla donna nell'islam a causa di questa confusione che lascerebbe credere che le società musulmane sono l'esatta riproduzione degli insegnamenti del Corano e della sunnah. Come lei può ben immaginare sono spesso interpellato a questo proposito ed accade che, quando parlo dei riferimenti, mi si chieda della condizione nella società e a sua volta, quando propongo un'analisi più sociologica, si citi un testo tratto dal Corano... Bisogna dunque separare i problemi e sapere di che cosa si parla esattamente.

E' necessario portare avanti i due procedimenti in modo complementare e allora si avrà una visione più chiara della questione della donna nell'islam in quanto tale e delle società islamiche oggi. Bisogna aggiungere che, a monte di questa questione fondamentale, il dibattito si apre sulla concezione specifica dell'essere, della coppia, della famiglia e più ampiamente della società.

J.N. Attraverso tutti gli aspetti che si considereranno ora, sarà necessa­rio far la distinzione tra ciò che l'islam richiede e ciò che gli uomini ne fanno. Nell'Occidente cristiano esiste la stessa dif­ferenza. Può anche darsi che l'abisso tra l'ideale cristiano e la realtà sia più grande che nell'islam.

La tragicommedia laica del foulard islamico

Proporrei di affrontare questo argomento partendo da un particolare, che ha fortemente colpito l'opinione pubblica occidentale: il fatto di portare il foulard islamico ed indossare più in generale abiti molto coprenti, obbligatori in certi paesi islamici. Non in tutti, comunque. Ma l'abbigliamento bizzarro delle donne afghane è chiaramente considerato umiliante e degradante: non possono uscire dalle loro case se non bardate da una sorta di garitta di tessuti, orientandosi nel loro cammino attraverso una griglia che permette loro giusto di respirare e di vedere, il che deve essere particolarmente opprimente in un paese caldo. E questo lascia intendere che i talibani, che pretendono di essere studenti di teologia, considerano la donna come un essere pericoloso al punto che il solo aspetto possa minare le basi della società islamica.

D'altra parte devo dire che il dibattito fatto in nome della laicità sulle giovani musulmane che portano o desiderano portare il foulard nelle scuole francesi, non lo condivido. Anzi. Questa intransigenza è specifica della laicità francese mentre c'è maggior tolleranza in altri paesi dove nessuno pone questo tipo di problemi. Se si vuole introdurre alla laicità e alla modernità una giovane maghrebina, non è con l'espulsione scolastica che ci si arriva, al contrario. Anche là c'è un atteggiamento intollerante da parte francese, simmetrico a quello dei talibani. Né gli uni, né gli altri permettono alle giovani di vestirsi come vogliono.

Consideriamo ora la posta in gioco del conflitto: una famiglia maghrebina sa che dovrà vivere definitivamente in Francia, non ha alcuna speranza di ritornare. La ristrettezza di spirito della società francese impedisce di integrare le giovani nella scuola accettando che esse portino il foulard come la famiglia musulmana desidera. Anche se l'aggressione iniziale proviene dalla società francese, la reazione della famiglia maghrebina resta inquietante. Si rassegna a non dare un'istruzione alla figlia piuttosto che transigere su un dettaglio, che ha comunque un'aria un pò formalista. La salvezza spirituale di una donna musulmana non dipende dal velo. E' proprio necessario trasformare queste giovani in martiri per un'attenzione esagerata ad una pratica rituale secondaria? Che cosa ne pensa?

T.R. La questione del foulard pone diverse problematiche. Prima di tutto precisiamo la terminologia: facendo riferimento al testo coranico e tenuto conto della comprensione che bisogna avere dell'abbigliamento della donna, mi sembra che il termine più appropriato sia "foulard". Il termine "velo" porta con sé una connotazione molto negativa, mentre chador è il riferimento persiano (sul piano terminologico come su quello dello stile) del modo di portare il foulard.

Essere chiari sulla terminologia è importante perché si percepisce subito, anche quando si parla con giornalisti e provveditori scolastici, che spesso questi termini vengono confusi... Portare lo chador significa sostenere il potere iraniano, difendere il "velo" che per estensione "velerà" e "nasconderà" tutto delle donne, come avviene in Afghanistan. Il termine utilizzato dice molto della rappresentazione che si ha di ciò che le donne portano per nascondere i loro capelli e che in francese è comunemente chiamato foulard.

La questione del foulard ha rivelato, a mio avviso, due cose. La rappresentazione, l'immagine che si ha dell'islam e delle donne musulmane è al centro dell'attenzione e particolarmente in questi ultimi anni in cui vedere musulmani in Europa, ed in particolare in Francia, è una novità. Su questo punto le responsabilità sono di entrambi: c'è una chiara mancanza di comunicazione da parte dei musulmani riguardo alla spiegazione della loro religione e delle loro pratiche, ma esiste anche nelle società europee una grande ignoranza, mescolata a tanti a priori e pregiudizi... Questi due fenomeni impediscono il dibattito profondo e circostanziato del quale abbiamo bisogno oggi.

I musulmani devono rendersi conto che, nel loro nuovo contesto che è l'Occidente, devono raddoppiare le spiegazioni. La secolarizzazione ha provocato una sorta di oblio di ciò che può significare un atto di fede ed infatti la sola pratica ha tendenza ad essere considerata fuori norma o al limite del comportamento "normale", ossia abituale perché divenuto maggioritario. E' il caso del foulard che indossato è talmente inusuale che diventa in sé l'espressione di una sensibilità e di una pratica radicali, perfino estremiste dell'islam. Nell'ardore del dibattito è stata dimenticata e trascurata la dimensione dell'atto di fede, la dimensione spirituale dell'essere. Si assiste ad una sorta di rappresentazione unica di che cosa è la libertà: le nostre società, a furia di rappresentazioni sofisticate del "benessere", ci hanno insegnato che questa libertà risiede nel "fa' quello che ti piace". La fede, la spiritualità ci orientano verso una dimensione esigente della libertà che è ancorata nell'intimità al "sii quello che ti piace". S’incontrano dunque due rappresentazioni che devono trovare i mezzi di una comunicazione rispettosa ed egualitaria. Non è semplice.

In Francia alcune giovani contro il parere dei loro genitori dicono: è quello in cui credo ed è l'espressione della mia fede. Chi dunque, al mondo, può arrogarsi il diritto di giudicare un atto che ha le sue radici nel cuore e nella coscienza di un essere umano? Sono sorpreso che in nome di una concezione di libertà ci si possa arrogare il diritto di diventare un dittatore intransigente della coscienza altrui. Qui si toccano questioni delicate. Si deve impedire di giudicare un altro solo attraverso la rappresentazione che ci si è fatti di lui. Bisogna ascoltare le donne che decidono di coprirsi da loro stesse e per propria scelta. E' da questo punto di partenza che comincia il vero dialogo pluralista ed egualitario in una società.

Penso che i termini del dibattito sul foulard siano mal posti dall'origine. Si sono scontrate due rappresentazioni caricaturali. Da una parte, c'era la rappresentazione di un islam fortemente integralista poiché offriva un tipo di pratica visibile in totale contrasto con le società nelle quali la percentuale media dei praticanti non oltrepassa il 10%. Dall'altra, alcuni musulmani si sono irrigiditi nella certezza di vivere in un ambiente ostile che rifiuta la loro religione e che li considera sempre come stranieri. Bisogna risalire a questo livello per comprendere il carattere emotivo e passionale che ha assunto questo dibattito, per esempio, in Francia.

E' necessario dunque tornare all'essenza del problema. Le posizioni si sono irrigidite e bisogna impegnarsi in un lavoro profondo di pedagogia e di educazione. E' necessario andare oltre gli atteggiamenti passionali e spesso ciechi. Non si può accettare e legittimare l'atteggiamento di certi musulmani e di certe musulmane che demonizzano il loro ambiente sulla base di quest'unico problema. Non vogliono più sentir parlare di scuola, di partecipazione, di concertazione. Rifiutano il dialogo ed il loro silenzio conferma la rappresentazione che si ha di loro: "Sono chiusi, duri, integralisti". Non si può più tacere di fronte a certi atteggiamenti arroganti, nel cuore delle società europee, di certe correnti di pensiero persuase di detenere il monopolio della modernità, della libertà e del giusto in nome del loro concetto di universale. Questi atteggiamenti impediscono il dialogo ancor prima di iniziarlo. E' anche una questione di psicologia sociale riguardo all'incontro di due universi religiosi e culturali che devono familiarizzarsi o, in ogni caso, rispettarsi, e il rispetto passa attraverso la conoscenza dei principi dell'altro.

Molti si sono impegnati in questo lavoro; bisogna riconoscere che le iniziative per il dialogo sono numerose. Esse partono da una posizione di principio che deve essere condivisa: imporre ad una giovane o ad una donna di portare il foulard non è né accettabile né islamico; imporre ad una giovane e ad una donna di toglierlo è allo stesso modo inaccettabile, e in disaccordo con i diritti dell'uomo.

La cosa è semplice. Il dialogo deve poi impegnarsi in profondità sulle rappresentazioni ed i significati che si danno rispettivamente alle nostre pratiche. Bisogna occuparsi anche del campo del diritto che, quasi sempre, è più aperto e rispettoso delle libertà individuali e collettive di quanto abbiano a dire alcuni che leggono le leggi del loro paese attraverso il prisma della loro raffigurazione di ciò che è "accettabile" o no dell'altro. Confondono i campi, perciò dobbiamo distinguere in modo chiaro il dibattito sul diritto della riflessione religiosa e filosofica. Siamo andati molto avanti in questo senso, in particolare nella commissione “Laicità ed Islam” della Lega dell'Insegnamento francese della quale faccio parte. Le cose avanzano lentamente, ed è normale, ma nella giusta direzione.

J.N. Del resto bisogna ricordare che in Francia non era mai stato impedito né alle giovani cristiane di portare una collana con la croce, né alle giovani ebree di portare la stella di David. Nel 1994, François Bayrou, ministro dell'Istruzione in Francia, ha raggiunto il ridicolo pubblicando una circolare che faceva la distinzione tra "segni religiosi ostentati" che erano proibiti e "segni discreti" che venivano ammessi. Nel 1996 il Consiglio di Stato ha annullato questa distinzione troppo soggettiva per costituire una base giuridica valida ed ha autorizzato il foulard. Questo non impedisce ad alcuni insegnanti di continuare una guerriglia contro le giovani musulmane velate. Dunque, si manifesta, sotto le sembianze della neutralità e della laicità, una forma di discriminazione nei confronti di una testimonianza religiosa, che è assolutamente sorprendente. In pratica, questo significa che una ragazza francese può mostrare di essere cristiana, eventualmente ebrea, ma non musulmana. O ancora, che un segno di appartenenza religiosa è tollerato purché sia così discreto da non notarsi: va bene per una catenina al collo con appesa una croce, una stella o la mano di Fatima. Al contrario, la minigonna aggressiva viene accettata perché costituisce una dichiarazione di libertà di costumi: essa è politicamente corretta nei confronti della laicità.

In quanto cristiano, ogni volta che ho visto una ragazza perseguitata in nome della sua testimonianza dell'islam, il fatto ha interrogato la mia cattiva coscienza di cristiano troppo discreta. Ma io mi manifesto abbastanza come cristiano? Oppure mi infilo per viltà nello stampo della secolarizzazione, che diventa una specie di muto consenso in cui tutte le religioni si equivalgono perché nessuna va veramente a fondo? Si sa ancora che sono cristiano?

Per il resto, mi unirei volentieri alla sua conclusione. Dopo tutto, sta alle ragazze ed alle donne di vestirsi come credono, purché non siano indecenti o provocanti al di là dell'uso socialmente accettato del loro fascino. In una delle scuole che professano la laicità e fanno a gara in intolleranza religiosa, se una ragazzina viene in classe con i capelli tinti di verde, un anello al naso e una minigonna cortissima, non si osa fare il minimo rimprovero per timore di sembrare retrogrado.

Se si presenta con un foulard sui capelli, la si caccia via. Il colmo è stato raggiunto nel febbraio 1999, quando alcune ragazze espulse per via del foulard, hanno beneficiato di un'eccezione: potevano tornare in classe con i capelli coperti da un berretto ma non da un foulard. L'odioso qui contende il posto al grottesco.

Alla fine la laicità stessa diventa una religione che non tollera la concorrenza con le altre religioni. Sotto la parvenza della tolleranza, essa diviene totalmente intollerante. Senza neppure rendersene conto, opera discriminazioni tra le religioni tradizionali nella società, il cristianesimo ed il giudaismo, in qualche modo religioni normali, e una religione importata, l'islam, la cui visibilità è accentuata dalla sua novità.

L’istruzione delle ragazze nell’islam

Dopo la parentesi del foulard, veniamo a questioni più importanti. Parliamo dell'istruzione. Qual è l'atteggiamento dell'islam riguardo all'istruzione femminile? C'è una discriminazione tra l'istruzione data ai ragazzi e quella data alle ragazze? Nelle scuole coraniche che ho visitato in Marocco, dove ho effettivamente scoperto ragazzini ripetere il Corano per impararlo a memoria, le ragazze sono ugualmente ammesse?

T.R. E' in un campo importante come questo che bisogna davvero fare la distinzione tra quello che dicono i testi e quello che accade nella realtà. In molti paesi musulmani - ma direi che non è per il fatto che sono musulmani che accadono queste cose - la percentuale di alfabetizzazione delle donne è molto inferiore a quella degli uomini.

Dal punto di vista islamico è chiaramente inaccettabile. I testi fondamentali dell'islam non possono suffragare in nulla questo stato di fatto, tanto essi sono espliciti sulla necessità di istruire le donne. L'istruzione, il sapere, l'intelligenza fanno parte dell'identità della musulmana e del musulmano. Il Profeta dell'islam è molto chiaro a questo proposito: La ricerca del sapere è un obbligo per ogni musulmano ed ogni musulmana. Inoltre ha affermato che colui o colei che educherà sua figlia allo stesso modo che suo figlio, sarà protetto dal castigo dell'altra vita. Le tradizioni che confermano ciò sono numerose e rientrano tutte nell'idea globale, per l'uomo come per la donna, che un sapere vasto è la condizione per una fede profonda.

Il testo coranico è chiaro: Coloro tra i servitori di Dio che Lo temono di più (nel senso di timore reverenziale) sono i sapienti. L'uomo e la donna devono seguire lo stesso cammino di conoscenza rispetto al Creatore. L'istruzione è fondatrice dell'identità musulmana ed il miglior esempio è proprio la moglie di Muhammad, Aisha, che ha trasmesso molte tradizioni, istruito tante generazioni e che, durante la sua vita, è rimasta un punto di riferimento in materia di conoscenza religiosa.

Resta il fatto che, tra questo insegnamento fondamentale e la realtà delle società islamiche oggi, il divario è immenso. L'ignoranza delle donne così come è diffusa e a volte mantenuta oggi, è uno dei più grandi tradimenti del messaggio dell'islam. E' del resto il campo in cui la discriminazione delle donne è più forte. Non si può negare questo fenomeno e certamente bisogna impegnarsi per opporsi e riformare i sistemi educativi e le rappresentazioni sociali. Molte donne musulmane si battono oggi per i loro diritti con questa particolarità, ancora poco compresa in Occidente, che consiste nel dire:"E' in nome dell'islam e dei diritti che ci dà, è in nome della nostra identità di musulmane, che noi lottiamo contro le discriminazioni delle quali siamo oggetto nelle nostre società".

J.N. Da quello che so, nelle università egiziane ci sono molte studentesse. Troviamo donne professori di università in proporzione forse più grande che in Occidente. All'estremo opposto, in Afghanistan, la regola è la negazione totale dell'educazione e dell'istruzione per le donne. Esiste tutta una panoplia di atteggiamenti ma tutti stanno all'interno dell'islam. L'atteggiamento riguardo alle donne dipende dall'acculturazione che è estremamente diversa tra una civiltà antica come quella egiziana e tribù sperdute tra le montagne come in Afghanistan.

T.R. Ha ragione quando mette in evidenza le differenze del contesto sociale. Se si considera, ad esempio, la percentuale di accesso all'istruzione e quella di successo scolastico delle giovani musulmane in Occidente, non si può che esserne sorpresi. Praticamente in tutti i campi, le ragazze riescono meglio dei ragazzi. In particolare nella scuola primaria e nel primo ciclo della secondaria.

Ma l'Occidente non è l'Afghanistan. Bisogna essere chiari e non giustificare, in nome della cultura e delle tradizioni locali, ingiustizie caratterizzate. Lei mi dà la possibilità di dire con molta chiarezza: il modello sociale ed educativo proposto dall'Arabia Saudita o il modello educativo messo in piedi dai talibani sono in opposizione con i principi dell'islam perché entrambi negano alle donne l'accesso alla conoscenza, mentre questo è un diritto inalienabile: bisogna denunciare questi sistemi arcaici.

Accanto a questi estremi, ci sono effettivamente paesi in cui l'accesso offerto alle donne permette loro di avere posti molto importanti in tutti i campi universitari. Si può quindi constatare che non è l'islam che decreta la discriminazione ma piuttosto una cultura o una strumentalizzazione politica del religioso, spesso a fini negativi. E' questa ignoranza mantenuta che bisogna combattere e il riferimento autentico all'islam è più un alleato di questa resistenza che un ostacolo, contrariamente a quello che si lascia intendere.

La poligamia

J.N. Affrontiamo un'altra differenza radicale tra l'islam e la cristianità: poligamia o monogamia. Certo, non c'è da stupirsi che alla comparsa dell'islam la poligamia sia stata accettata e normalizzata secondo la regola: quattro spose legittime e tante concubine quante si vuole. La poligamia rappresentava semplicemente lo stato normale della società in cui l'islam è nato. Questo stato era del resto identico a quello dei patriarchi di Israele. Tutti i grandi patriarchi, a cominciare da Abramo, Mosè, Davide, Salomone, erano poligami. E' una struttura sociale che deve essere apprezzata in un certo contesto economico e sociale.

La poligamia non rappresenta, come troppo spesso si pensa in Occidente, una testimonianza di perversità sociale, l'accaparramento delle donne da parte dei ricchi a scapito dei poveri, ma la preoccupazione, in certe società, di non lasciare mai una donna sola semplicemente perché morirebbe di fame con i suoi bambini. Tale è il senso profondo della poligamia. Il Levitico, uno dei libri della Thora, rende obbligatorio, quando una donna è vedova, che suo cognato la prenda con sé. E' in fondo una forma elementare di sicurezza sociale.

Da allora, la situazione attuale è molto diversificata secondo il livello economico del paese considerato. Alcuni paesi come la Tunisia proibiscono la poligamia. Altri, come l'Arabia Saudita ne fanno praticamente una regola. E' forse l'applicazione dello stesso Corano a situazioni diverse o c'è qualche cosa di più profondo? In altre parole, la poligamia è tutt'altro che una tolleranza provvisoria destinata a scomparire o meglio una distorsione fondamentale tra la condizione dell'uomo al quale tutto è permesso e quella della donna asservita alla fedeltà?

T.R. Il testo coranico è chiaro da questo punto di vista: la poligamia è permessa nell'islam fino a quattro mogli, ma è ricca di condizioni non meno esplicite. E' un permesso, quasi all'unanimità i sapienti musulmani affermano che l'orientamento generale dell'insegnamento islamico tende alla monogamia. Circostanze sociali particolari o situazioni specifiche in una coppia possono portare a considerare la soluzione della poligamia. Si devono considerare tutte le prospettive: quando, ad esempio, è stata imposta la monogamia in una società come quella di Burkina Faso, negli anni ottanta, il rifiuto è venuto dalle donne che non concepivano di sopportare da sole il peso del lavoro in famiglia e in campagna. Situazioni di donne sole, come lei ha accennato, esistono e possono trovare qui una prospettiva di soluzione.

La questione centrale resta l'educazione. Molte donne musulmane subiscono la pressione della cultura che le circonda e non conoscono i diritti che la religione concede loro. Non sanno, ad esempio, che la prima sposa, può inserire nel suo contratto di matrimonio la clausola che il marito non sposi un'altra donna. Se egli accetta di sposarsi con la suddetta donna, l'uomo non avrà altra scelta che piegarsi a questa richiesta. Quanto alla donna che dovrebbe diventare la seconda sposa, bisogna ugualmente ricordare che il matrimonio nell'islam si deve fare con il suo consenso e che può dunque rifiutarsi di sposare un uomo già sposato.

J.N. Anche in un paese come l'Arabia Saudita?

T.R. Il sapiente che è stato più esplicito sulla questione della clausola che rifiuta la poligamia, da aggiungere al contratto di matrimonio, è Ahmed ibn Hanbal, il fondatore della scuola giuridica maggioritaria in Arabia Saudita, la scuola hanbalita. Il problema oggi non è la clausola del diritto, è quanto essa sia veramente rispettata in una società che mantiene la donne in uno stato di ignoranza, confondendo la tradizione essenzialmente beduina del deserto, con l'applicazione dell'islam. La maggioranza delle donne musulmane non conosce i diritti loro concessi dalla religione e le società nelle quali vivono non forniscono loro le occasioni, né le condizioni per accedere agli insegnamenti fondamentali. Questa è la cosa più grave.

Oggi in Arabia Saudita, come nella maggior parte dei paesi musulmani, il problema dell'educazione e dell'istruzione è fondamentale. Ci accorgiamo, del resto, che moltissime donne si stanno mobilitando oggi in nome dei loro riferimenti religiosi per lottare contro l'arcaismo e l'oscurantismo delle società, perché sanno che l'islam non può giustificare i modelli di società che i paesi a maggioranza musulmana presentano nella nostra epoca, addirittura esige che ci si opponga. Sono istruite, consapevoli dei loro diritti e parlano dall'interno del campo di riferimento islamico.

In Occidente le si comprende pochissimo perché sembra che le sole vere femministe, che l'unica liberazione delle donne, sia a misura del modello occidentale. Si potrebbe rendere questa percezione molto riduttiva con la formula "più una donna è occidentalizzata, più essa è libera..." Si confonde l'immagine, il modello culturale con il diritto, il principio universale. In altri termini, si dice alle musulmane"Voi sarete libere solo quando sarete diventate occidentali, solo quando sarete meno musulmane". Il discorso è riduttivo e pericoloso perché sottintende un vero e proprio imperialismo culturale.

Quanto a me, preferisco restare ad ascoltare queste donne che ho potuto incontrare in Europa, nel mondo musulmano e in Africa, le quali si impegnano nello studio e si mobilitano per far rispettare i loro diritti. In occasione di un recente viaggio nell'Africa occidentale, ho avuto l'occasione di esprimermi sulla questione delle donne e di incontrare numerosi gruppi di militanti fieramente decise a farsi ascoltare e a lottare contro tutte le distorsioni delle loro società, falsamente giustificate in nome dell'islam.

Queste donne sono numerose in Africa, in Asia e in Occidente e ciò che viene fuori dal loro impegno è un messaggio di fondamentale importanza: "Io posso essere libera e rispettata senza essere occidentalizzata". Il che significa: "Senza sottomettermi al modello occidentale di rappresentazione della donna". Si può oggi sinceramente, profondamente, capire questo messaggio in Occidente? Non ne sono sicuro, tanto siamo troppo naturalmente convinti, quasi "intuitivamente", per non dire inconsciamente, di detenere il modello di società più avanzato, l'unico coerente.

Di fatto, per tornare alla sua domanda, direi che oggi le società a maggioranza musulmana rivelano una conseguente mancanza di educazione che non permette un'applicazione fedele degli insegnamenti dell'islam.

La Turchia e la Tunisia, esempi, esempi di transizioni riuscite?

J.N. Si può dire che i paesi che godono di un diritto civile che proibisce la poligamia - la Turchia e la Tunisia - siano andati fino in fondo al cammino dell'islam? Allo stesso modo, c'è stato bisogno di un certo periodo di tempo affinché i cristiani andassero fino in fondo alle esigenze del cristianesimo. All'inizio, la posizione della donna nella cristianità non è assolutamente stata quella che avrebbe dovuto essere. E c'è voluto molto tempo per scoprire i doveri fondamentali del cristianesimo a questo riguardo: le saudite hanno avuto il diritto di voto prima delle svizzere; le donne non possono ancora diventare preti nella Chiesa cattolica. E' d'accordo con questa affermazione, la Tunisia, la Turchia come modelli di un islam del futuro?

T.R. No, assolutamente. Intanto la ringrazio di avermi posto questa domanda poiché mi permette di rispondere in modo chiaro a taluni ricercatori ed intellettuali che lascerebbero supporre che, chi non sostiene i modelli della Turchia e della Tunisia, è necessariamente sospetto e ambiguo. Bisogna essere chiari, cercherò quindi d'esserlo. Tre ragioni, essenzialmente, mi impediscono di andare nella sua direzione.

La prima è di ordine storico: le legislazioni applicate in questi paesi sono il prodotto dell'epoca coloniale. Si sono presi a prestito articoli legislativi da paesi occidentali, Francia, Svizzera, Bulgaria o altri, e sono stati imposti a questi paesi. Non è stata, si sa, la scelta di un popolo, ma l'imposizione, a volte molto aggressiva, degli stati coloniali e dei loro sostenitori.

La seconda ragione è la natura degli stati che lei presenta come modelli per il futuro: si tratta chiaramente di dittature sanguinarie, nelle quali i prigionieri politici si contano a decine di migliaia. I popoli sono tenuti sotto una cappa di piombo. Il regime militare turco è spietato e Ben Ali, eletto regolarmente col 97% dei voti, è un presidente che applica la tortura senza ritegno Bisogna, dunque, che i musulmani siano governati da despoti, come avviene oggi, affinché le loro società diventino dei modelli?

La terza ragione, infine, è la strumentalizzazione che si fa oggi della questione della "modernità" e della "questione della donna".

Si ha il diritto di giudicare lo stato di una società sulla base di questi unici due parametri, machiavellicamente esibiti dai despoti? E' sufficiente che dicano all'Occidente: "Guardate come siamo progressisti, le nostre donne sono libere, noi siamo moderni, abbiamo associazioni per la difesa dei diritti dell'uomo, ecc." per vedere il loro regime sostenuto, credibile, rispettato.

Ebbene, bisogna dire chiaramente che questa non è che polvere negli occhi: i poteri dittatoriali hanno saputo strumentalizzare le donne, i diritti dell'uomo e la modernità giocando sul timore che ha l'Occidente dell'islam e dell'islamismo. La realtà è tutt'altra e sarebbe ora che ce ne rendessimo conto in Europa. In quei paesi le istituzioni di difesa dei diritti dell'uomo sono quasi tutte al servizio del potere e, quando non lo sono, i veri difensori sono sottoposti a trattamenti degradanti: arresti, torture, sparizioni. In nome della modernità, si perseguitano tutti i sospetti per la buona causa: i musulmani praticanti, i potenziali oppositori e le donne che decidono di portare il velo, sono tutti sottoposti a maltrattamenti da parte della polizia: arresti, sorveglianza, pressioni sui datori di lavoro affinché perdano l'impiego e così via. E' sufficiente far finta di lottare contro i "barbuti" e le "velate" per ricevere carta bianca nel compiere orrori e disumanità?

La Turchia e la Tunisia non sono modelli di società e le leggi a protezione delle donne non dicono nulla dello stato reale della società in materia di educazione, di diritto e di non-discriminazione. Ci si può illudere, in Europa, pensando che si stia andando nella giusta direzione ed avendo una lettura in fondo parziale della realtà di queste società. Bisogna considerare l'insieme ed allora ci si accorge della gravità del problema. Lottare per i diritti delle donne non può legittimare i regimi più arbitrari. A che serve la libertà delle donne nel cuore di popoli soffocati e negati?

Il vero modello, a mio parere, è quello di una società che si dà l'esigenza ed il tempo per l'educazione, che gestisce il proprio pluralismo e che non rifiuta mai di pensare dall'interno dei suoi riferimenti religiosi, della propria civiltà e cultura perché non vuole conformarsi all'egemonia di un'unica visione della modernità. E' anche questo messaggio che dovrebbe essere compreso dagli uomini di buona volontà in Occidente: rifiutare gli alibi ed i pretesti dei governi riguardo a " la donna", "i diritti", "la democrazia" e "la laicità", che troppo spesso hanno giustificato il silenzio davanti alla repressione, la tortura e le esecuzioni sommarie che abitualmente avvenivano nei paesi musulmani.

Bisogna dire con forza e severità:"Non chiediamo ad un musulmano di tradire i suoi riferimenti, ma di comprenderli in funzione del contesto e di far fronte alla sua epoca". Se è veramente questo il messaggio che si vuol far intendere, allora bisogna porre fine alle valutazioni semplificatrici che costituiscono altrettante garanzie per le peggiori dittature.

L'evoluzione mancata dell’Iran

J.N. L'evoluzione attuale in Tunisia e in Turchia riproduce dunque ciò che è accaduto in Iran, quando l'ultimo shah, Reza Palevi, ha tentato di forzare l'entrata del suo paese nella modernità. Ha suscitato, per reazione ad un ritmo precipitoso, una levata di scudi ed ha prodotto una regressione. Dunque, in questa evoluzione, bisogna dar tempo al tempo.

T.R. Sì. Certo. Lei ha fatto un esempio estremamente interessante. Se noi facciamo un'analisi acuta e tralasciamo l'immagine che abbiamo delle rappresentazioni dello chador delle Iraniane, che cosa si può osservare? Durante gli ultimi vent'anni, l'evoluzione della condizione delle donne iraniane è stata particolarmente impressionante. Certamente bisogna criticare gli eccessi, come l'imposizione dello chador e altre restrizioni di diritto.

Bisogna comunque riconoscere che l'Iran è senza dubbio uno dei paesi musulmani che ha fatto più progressi negli ultimi vent'anni riguardo all'evoluzione dei diritti della donna: il numero di donne presenti al Parlamento è superiore a quella di molti paesi, anche europei; le donne partecipano alla vita sociale e sono presenti in diversi campi dell'attività culturale e sportiva. L'evoluzione, lenta, difficile, ma reale si fa dall'interno del campo di riferimento musulmano.

Lo stesso fenomeno si è visto in Bangladesh. Molte donne avevano attaccato Taslima Nasreen affermando che non era criticando la religione, i valori e la cultura che si facevano evolvere le cose. Erano naturalmente e giustamente contro la sua condanna a morte, ma allo stesso tempo prendevano le distanze dai suoi discorsi riduttivi e totalmente occidentalizzati. Esse pensano che le cose si possano modificare meglio dall'interno che tramite questa specie di lotta, percepita come l'unica "progressista" in Occidente, che per essere legittimizzata e riconosciuta spinge i suoi partigiani a gettare tutto, il bene e il male. Lo shah d'Iran, come tanti altri governanti "progressisti", ha cozzato contro la realtà di tutte le società umane. Non si può far evolvere mentalità imponendo a martellate valori venuti da fuori o comunque percepiti come tali. Bisogna privilegiare l'educazione, il lavoro dall'interno e a lungo termine.

J.N. Una situazione simile si è sviluppata anche nel cristianesimo. La repressione di diversi governi comunisti contro le Chiese ortodosse non ha assolutamente soppresso la fede cristiana assai tradizionale degli ortodossi. Al contrario, questa repressione ha fatto stagnare l'ortodossia e le ha impedito di evolversi come le altre confessioni cristiane.

Il divorzio e il ripudio nel diritto islamico

Per tornare più precisamente alla donna, potrebbe precisare allo stesso tempo il principio, il riferimento coranico, e la pratica in materia di divorzio e di ripudio? L'immagine un pò facile che regna in Occidente è questa: il marito ha il diritto di ripudiare la donna senza dare alcuna giustificazione. E la sicurezza delle donne è dunque estremamente fragile. Al contrario, essa non può chiedere il divorzio, anche se il marito abusa di lei, la picchia, la maltratta. Qual è il principio e come viene applicato?

T.R. La questione del divorzio ci impone di tornare ai testi fondamentali. Un giorno una donna è andata dal Profeta affermando che non le piaceva il marito e che temeva di agire contro la morale. Muhammad le ha domandato se accettava di restituirgli l'equivalente della dote che suo marito le aveva versato al momento del matrimonio (si trattava di un giardino); ella disse di sì e furono quindi divorziati (in certe circostanze, e secondo certi giuristi, non è obbligata a rendergli la dote, a seconda se egli è nel torto oppure no).

L'idea di pensare che una donna non ha il diritto di separarsi o di chiedere la separazione dal marito è falsa e non corrisponde agli insegnamenti dell'islam. Una donna può anche esigere che i suoi diritti riguardo alla separazione vengano chiaramente stipulati nel contratto di matrimonio. Evita così interpretazioni estese o l'applicazione specifica di una scuola di diritto che potrebbe, in una data situazione, essere più restrittiva di un'altra.

Il divorzio, tra le cose permesse, è la più detestata da Dio, ci dice una tradizione del Profeta. Non è dunque un atto da farsi con leggerezza, quasi gratuitamente, che ci si potrebbe permettere di fare senza ragione. E' un atto grave che per l'uomo come per la donna deve essere giustificato. Purtroppo oggi non è sempre così. E' ancora e sempre una questione di educazione.

Gli uomini del resto non sono da meno e i casi di divorzio, di talaaq secondo il termine arabo, rivelano da parte di questi ultimi esagerazioni con trattamenti assolutamente discriminatori e disumani nei confronti della sposa. Certi uomini credono veramente che tutto sia loro permesso e del resto già 'Umar, il secondo successore di Muhammad, aveva dovuto intervenire perché gli uomini pronunciavano la tripla formula del divorzio in modo sconsiderato. Bisogna riconoscere queste gravi deviazioni e rimediarvi al più presto con un doppio lavoro: educazione degli uomini e delle donne riguardo ai loro rispettivi doveri e responsabilità nel matrimonio e in seno alla famiglia, e promovendo riforme legali che, per tappe, permettano di lottare contro le discriminazioni e i maltrattamenti che subiscono le donne, tanto sul piano del diritto come su quello puramente fisico.

Bisogna anche aggiungere che, nelle società a maggioranza musulmana, il matrimonio non riguarda solo due esseri. E' il matrimonio di due esseri e l'unione di due famiglie. La donna musulmana mantiene il legame con la propria famiglia e non prende mai il nome di suo marito. Ciascuno conserva la propria identità e inoltre resta legato alla sua famiglia d'origine. La cosa vale per il matrimonio come per il divorzio: lasciare la moglie o il marito, significa ritrovare la propria famiglia. Non ci si ritrova mai completamente soli.

L'applicazione del diritto deve anche tener conto delle realtà del contesto sociale nel quale si concretizza. E' oggi un problema profondo, poiché le strutture sociali e familiari delle società musulmane subiscono gravi disfunzioni a causa della povertà, delle condizioni di vita, delle famiglie smembrate. Spesso in casi di separazione, la donna si ritrova sola, isolata, con a carico molti bambini. Non si può in questi casi plateali nascondersi dietro un'applicazione letterale dei principi della giurisdizione islamica perché allora si sosterrebbe un'ingiustizia.

Tant'è vero che la più giusta delle leggi applicata in un contesto ingiusto e/o inadeguato diventa essa stessa una legge ingiusta e discriminatoria. Tener conto del contesto, pensare agli adattamenti e alle fasi di applicazione delle leggi è un esercizio che non si può aggirare per qualsiasi società musulmana che voglia restare fedele al senso del suo messaggio. Senza questo lavoro, si cade in un letteralismo ristretto che crede di aver conservato la fedeltà al testo mentre avalla l'ingiustizia. Ma l'islam richiama, nei suoi principi e nella sua essenza, alla giustizia. E' questo che bisogna dire ai musulmani. Non si può, in nome di un principio, dimenticare il contesto nel quale lo si applica perché allora, lo ripeto, il principio giusto diventa ingiusto nella sua applicazione.

Bisogna trasformare la società, ciò che i riformisti musulmani sono venuti a ricordare: attenzione, ci sono doveri e responsabilità per la donna come per l'uomo, che si devono considerare alla luce sia delle fonti che del contesto per pensare di realizzare un adattamento a tappe. A questo lavoro di riforma il 90% delle società musulmane non si è ancora realmente impegnato. Da ciò è derivato disordine e strumentalizzazione della religione a fini elettorali.

L'esempio dello statuto personale imposto in Algeria fa testo: il governo che l'ha ratificato non era "islamista", si proclamava laico e cercava in quel modo di darsi una garanzia e una legittimità religiose. Come se fossero caduti dal cielo, gli articoli di legge riguardanti lo statuto personale fanno della donna un minore senza diritti e non corrispondono per nulla alla realtà della società algerina. Le conseguenze sono ingiuste e discriminatorie, quale che sia la veste di legittimità religiosa che gli si vuole affibbiare.

I musulmani devono dirlo e devono impegnarsi veramente per una riforma che non sia un'applicazione populista dell’islam, per sedurre popolazioni ingannate e credulone. La fedeltà al messaggio è molto esigente, richiede tempo ed è l'esatto opposto della parata a fini elettorali. Ci si presentano due sfide: il lavoro di adattamento per fasi alla luce dei nostri riferimenti islamici e l'impegno per una reale riforma sociale, l'unica che permetterà alla società di andare verso una maggiore giustizia. Restare fedeli richiede l'accesso alla padronanza di questa dialettica che è il costante andirivieni tra l'intelligenza dei testi e l'intelligenza del contesto.

J.N. Lei ha accennato alla condizione di inferiorità della donna in Algeria. Questo significa che non può chiedere il divorzio, che non ha questo diritto?

T.R. Le si riconosce questo diritto solo in casi estremamente gravi e specifici. Il codice dello statuto personale è una lettura riduttrice, letterale (si riferisce solo ad una scuola di diritto sunnita) e che, soprattutto, non tiene conto dello stato della società algerina. E' grave e preoccupante nel senso che, per certi sapienti e certi musulmani, è proprio il suo carattere restrittivo, limitativo e letteralista che ne fa una vera conquista islamica. Essi non pensano all'applicazione degli insegnamenti dell'islam in sé, nell'apertura e nella flessibilità che le sono proprie (soprattutto riguardo al contesto) ma piuttosto contro la cultura dei coloni, contro l'occidentalizzazione e si arriva a questa equazione:"Meno libertà, significa più islam" poiché "maggior libertà significa maggiore occidentalizzazione". Ragionamento binario pericoloso e grave perché toglie alle donne la maggior parte dei diritti che Dio ha loro concesso: nessun timore può legittimare una così grave trasgressione.

J.N. Almeno nel principio - che non è applicato, come lei ha appena detto - il divorzio per incompatibilità di carattere, impossibilità di continuare a vivere insieme, è riconosciuto. Ma non ha ricordato la cosa più grave, il divorzio a causa di adulterio. C'è una simmetria perfetta? L'adulterio dell'uomo è grave quanto quello della donna, sia in teoria che in pratica? E' tollerato o punito?

Le sanzioni dell’adulterio

T.R. L'idea diffusa in Occidente - e non so su che cosa ci si basi per avanzarla - è che ci sarebbe una pena diversa per l'uomo e per la donna in caso di adulterio: non c'è nessuna corrispondenza nella realtà e neppure nei testi. Una parte delle pene è citata nel Corano e la lapidazione, nel caso dell'adulterio, è nominata nelle tradizioni del Profeta (ahadith). Quando lo stato civile delle persone è lo stesso (celibi o coniugati), non c'è differenza tra l'uomo e la donna a questo proposito. E quando, in situazioni specifiche della coppia, i due congiunti devono testimoniare sulla verità delle loro affermazioni, lo fanno su una base assolutamente egualitaria: numero di giuramenti, formulazione, riconoscimento, ecc.

Parlando di questo argomento non ci si può fermare qui. Certo, queste pene sono menzionate nei testi di riferimento, ma sono accompagnate da clausole di condizionalità che determinano la loro applicazione in modo molto preciso e rigoroso. Lo stato della società circostante è di capitale importanza per l'applicazione delle regole del diritto: una società nella quale l'educazione ed il comportamento non hanno raggiunto un grado di coscienza etica non può neppur pensare di orientare la sua legislazione in questo senso.

Inoltre, anche supponendo di aver raggiunto il livello richiesto di organizzazione e di educazione, le condizioni, in materia di fornicazione e di adulterio, sono draconiane: quattro testimoni devono aver visto le persone durante l'atto sessuale, in flagrante delitto, e testimoniare quindi quello che hanno visto. L'applicazione di queste pene è quasi impossibile tenuto conto delle condizioni che si devono riunire per farle rispettare. Tuttavia, ciò che sottolineano come insegnamento, è che la fornicazione e l'adulterio sono cose gravissime davanti a Dio, allo stesso modo che sul piano sociale. L'enunciazione delle pene ha una finalità essenzialmente educativa e dissuasiva. Esistono nei testi, non lo si può negare o nascondere e si devono applicare per capire il senso del loro insegnamento: l'importanza della vita sessuale all'interno di un quadro chiaro, il matrimonio, che è l'espressione di un dono condiviso del proprio essere. Questi testi parlano allo stesso modo della gravità della menzogna, del tradimento, dell'inganno. E' un insegnamento morale molto forte che le società musulmane devono trasmettere e proteggere a monte e non limitarsi alla repressione e alla caccia ai "colpevoli", che ancora una volta è un mezzo per legittimare le chiusure mentali sotto la copertura di questa falsa parola d'ordine: più si proibisce, più si reprime, più è islamico. Atteggiamento reattivo e reazionario gravemente infedele, nella lettera e nello spirito, all'insegnamento dell'islam, che ci dice, al contrario, che più si educa, più è islamico. Ciò richiede un approccio più profondo, più ponderato, più spirituale del rassicurante "reprimere tutto". Non si tratta di essere lassisti o negligenti o apparentemente "moderni". No, si tratta di esser profondamente ed intimamente in accordo con i principi dell'islam che ci orientano verso un rapporto di intelligenza e responsabilità con noi stessi e con gli altri. E' difficile ma necessario.

Molte società a maggioranza musulmana fanno riferimento al religioso solo sul piano della legittimazione apparente della loro struttura e della loro organizzazione, allo stesso modo in cui stabiliscono delle differenze di trattamento tra le donne e gli uomini. L'islam è il più delle volte dimenticato in questo tipo di approccio molto segnato dal punto di vista culturale, un pò del resto come si vedono forti segni di identità se si scende nel sud dell'Italia o della Spagna.

J.N. Quindi il principio è applicato in modo molto diverso secondo le società. Ecco quello che so della situazione nelle oasi del sud della Tunisia per esempio, dove la popolazione è costituita da beduini che sono più o meno stabili e che sono diventati coltivatori. Se una donna tradisce il marito, può essere punita con la pena di morte. Ma una donna non ha il diritto di chiedere al marito se ha commesso o no un adulterio. Questo semplicemente non la riguarda. Ecco come il principio è vissuto da un beduino.

T.R. E' qui che prevale il tratto culturale che non ha nulla a che vedere con l'islam. Al contrario, è contro questi tipi di discriminazione caratterizzata che l'islam deve trovare la garanzia della fedeltà al suo messaggio.

La pena di morte nel diritto islamico

J.N. Veniamo alla pena di morte che lei ha accennato e che si continua ad applicare. In società rigide come l'Arabia Saudita, il Sudan e l'Afghanistan la sanzione dell'adulterio è la pena di morte. La pena di morte per lapidazione è ancora applicata. Esiste un riferimento che giustifica questa punizione nel Corano?

T.R. Questa punizione è effettivamente menzionata nei testi come ho detto e si tratta, per la natura specifica della pena, di tradizioni profetiche.

J.N. Israele ha esattamente la stessa tradizione. Gesù di Nazareth pone fine a questa pratica. Portato davanti ad una donna adultera che doveva essere lapidata enuncia la regola: colui che non ha mai peccato scagli la prima pietra. Il testo dice che se ne andarono tutti a cominciare dai più anziani.

Si tratta dunque di una tradizione arcaica che interessa tutto il Medio Oriente e che oltrepassa alla lunga l'islam. Ma essa è accettata? E' scritta nella shari’ah, cioè nel corpus di regole di diritto civile attinte dal Corano? Questa definizione sommaria ci può servire provvisoriamente prima di tornare sull'importante questione del diritto islamico.

T.R. In effetti sarà necessario tornare sulla definizione di questa nozione poiché, basandosi sulle definizioni convenzionali adottate da certi giuristi, si è data una definizione molto restrittiva e riduttrice. Penso che sarà l'argomento del prossimo incontro.

Ebbene, per quanto riguarda la legislazione propriamente detta, che è una parte degli insegnamenti dell'islam, vengono effettivamente nominate una serie di pene nel Corano e nella sunnah. Come abbiamo visto, c'è unanimità nel considerare che i riferimenti vengano rispettati ma ci sono divergenze significative tra alcune scuole di pensiero e tra i sapienti riguardo alle modalità di questo rispetto e all'ampiezza di interpretazione e di adattamento che è offerto agli uomini secondo il contesto in cui vivono.

Le condizioni che accompagnano queste pene, l'ho già detto, le rendono praticamente inapplicabili di fatto e la loro enunciazione orienta la coscienza del credente verso le sue responsabilità personali e collettive, tanto gli sbagli enunciati sono considerati gravi: bisogna dunque costruire uno spazio sociale che permetta all'essere umano di vivere in coerenza con i suoi principi e sviluppare in ciascuno il senso dell'esigenza personale sul piano etico. Il Profeta ha perdonato molto e ci ha insegnato a perdonare ma ha accompagnato questo perdono, come tutta la Rivelazione coranica, con un appello alla coscienza, all'esigenza e all'umiltà prima e dopo l'errore.

Certi sapienti non sono d'accordo con l'approccio che ho presentato. Essi fanno una lettura più direttamente letterale: ai loro occhi bisogna applicare le regole indipendentemente dal contesto. Basta l'applicazione delle punizioni per provare la fedeltà. Mi oppongo, come tanti altri sapienti musulmani, a questo approccio riduttivo e pericoloso. La vera fedeltà al testo non consiste nel privarci dell'intelligenza della sua lettura e della sua profonda comprensione. Il senso stesso di tutto l'apparato legislativo islamico è orientato verso la giustizia; ora, l'approccio letterale, che pretende di aver esaurito tutto il campo della comprensione, può essere una vera e propria infedeltà all'insegnamento coranico. Obnubilati dall'aspetto repressivo, certi sapienti rivendicano la loro fedeltà sul piano legale fondandosi su una lettura totalmente astratta dalla società e dalla sua evoluzione. Né la Rivelazione, insegnata in ventitrè anni con l'integrazione della dinamica della storia e dei luoghi, né Muhammad, né i suoi compagni hanno agito in tal modo...

Senza dimenticare, oltretutto, la costante propensione di Muhammad ad alleggerire, rifiutare la durezza e la pena. A volte girava la testa dall'altra parte, facendo finta di non capire quando giungevano a lui taluni accusandosi e chiedendo l'applicazione della pena contro loro stessi. E' successo a uomini e donne e Muhammad ha sempre cercato di evitare l'applicazione delle pene... Ed oggi ci troviamo di fronte a queste manifestazioni di rigidità mentale di certe persone che vorrebbero quasi perseguitare gli esseri umani fin nella loro intimità. Tutto ciò non corrisponde per nulla all'esempio del Profeta.

J.N. Il Profeta si unisce alla posizione di Gesù di Nazareth che dice: "Se voi stessi siete senza peccato potete applicare la pena." Quello che vuol dire tramite un'abile perifrasi è che la pena non può essere applicata da uomini che sono tutti peccatori, mentre Dio, che è senza peccato, perdona.

T.R. Sì, il messaggio di bontà è lo stesso. Ma bisogna dire chiaramente che il messaggio musulmano di bontà e perdono non si confonde con una sorta di lassismo o di diminuzione della responsabilità e delle esigenze sociali e personali che ne derivano. Il perdono non può garantire tutto e tutti come capita nelle nostre società.

I tre pilastri dell'azione nell'islam sono chiari: la coscienza davanti a Dio, l'orientamento al bene, l'equità di fronte agli uomini. Quando tutto questo non è rispettato, l'uomo può trovarsi in due situazioni: o il malfatto è rimasto invisibile agli occhi dei suoi simili e allora è un affare tra Dio e lui; o lo sbaglio commesso è visibile e riguarda la vita comunitaria ed allora sarà necessario il concorso di tutte le condizioni stabilite per poter applicare la pena. La porta del perdono è sempre aperta ma, in casi estremi, per i quali ricorrono tutte le condizioni, sarà richiesta la fermezza.

Alla fine, il lavoro educativo a monte resta l'essenziale. Esso è la vera fedeltà al messaggio poiché insegna a ciascuno ad armarsi contro le proprie deviazioni e ad essere in grado di assumersi il peso delle proprie azioni. L'universo dell'islam, la società dei musulmani, è un progetto che consiste nel far nascere una comunità di spiritualità e responsabilità e non edificare uno spazio del timore perpetuo della repressione alimentato da un pesante e costante sentimento della potenziale colpevolezza. Alcuni sapienti si sentono a proprio agio in questo secondo modo di procedere. Di sapienti così ce ne sono nel mondo musulmano e dobbiamo dire chiaramente che non aderiamo al loro approccio e rifiutiamo la strumentalizzazione che certi poteri fanno dell'islam, traendo profitto dal timore che fa nascere nel popolo la sua applicazione repressiva: preferiscono assicurarsi l'autorità piuttosto che individuare percorsi verso la fedeltà agli insegnamenti islamici.

Mentirei se dicessi di rappresentare tutte le correnti di pensiero, ma ciò che posso affermare con certezza, è che la maggior parte dei musulmani condivide queste idee. Nel mondo musulmano come in Occidente. La maggior parte vuol restare fedele alle fonti, ma sono consapevoli che questo non si può fare senza tener conto di tutti i parametri: prima di tutto le condizioni che sono nei testi stessi, e poi l'evoluzione della storia e la diversità dei luoghi e della cultura.

Alla luce delle nostre valutazioni, non dimentichiamo questa immensa maggioranza di musulmani e non lasciamoci accecare, nelle nostre analisi del mondo, dalle affermazioni di qualche teologo o di questo o quel gruppuscolo radicale ed estremista.

J.N. Se la grande maggioranza dei musulmani si pone al di fuori di questa repressione brutale e violenta dell'adulterio, pur continuando a biasimarlo nel principio, si può dire che paesi moderati nell'applicazione dell'islam come il Marocco, l'Egitto, la Siria non applicano più queste pene?

T.R. Sì. Non sono applicate. Ma ancora una volta stiamo attenti a non leggere le situazioni politiche facendo di una mosca un elefante. Parlando francamente, io resto personalmente molto distante da questi paesi.

J.N. Quali?

T.R. Tutti quelli che lei ha citato.

L'occidentalizzazione rampante

Ci si può fermare al fatto oggettivo che le pene non sono applicate, ma bisogna andare più in là nell'analisi. Se quello che vogliamo è conservare per i popoli la specificità della loro identità e la fedeltà al messaggio etico dell'islam, allora bisogna formulare una critica radicale della gestione di questi paesi. La questione si deve porre a monte, esattamente al livello di questa politica di sottomissione e di accettazione della cultura e dei valori esogeni. Ciò a cui assistiamo in questi paesi è un lento processo di alienazione religiosa e culturale, una occidentalizzazione rampante che ha colonizzato una parte importante della produzione simbolica di queste società.

E', certo, una fortuna che non si applichino freddamente le pene corporali in queste condizioni (da notare che ciò non impedisce la feroce repressione e le torture all'ombra delle carceri), ma bisogna mettere in discussione la gestione di questi paesi nei quali il lavoro di educazione, di risveglio della coscienze, di sviluppo nella coerenza di una identità rivendicata ed equilibrata è totalmente assente. Non ci sono apparenti punizioni corporali, ma culturalmente non ci sono più molti limiti all'occidentalizzazione. Popoli immersi in serial televisivi del tipo Dallas o McGyver, e così in tutto il resto, perdono la loro anima. Questo significa essere progressisti o piuttosto decidere di compiere delle scelte alla luce di quello che si è e di quello che si vuole essere? Sul piano legale, il contrario di una politica repressiva non è una politica lassista e sottomessa alla legislazione e ai modelli altrui.

Senza contare che i popoli sono tutti perdenti: i popoli d'Occidente, per l'immagine degradata e menzognera che dà di loro questa cultura d'esportazione abbrutente, e i popoli musulmani perché si vedono divisi tra le fonti della loro identità, dalle quali traggono ispirazione e alle quali desiderano restare fedeli, e miraggi culturali che, naturalmente, li attraggono.

J.N. Vuol dire che i costumi occidentali corrompono la pratica sociale trasmettendo ciò che hanno di peggiore? Non si tratta dunque di un'evoluzione ragionata dell'islam, ma piuttosto della corruzione portata dai costumi occidentali. Si tratta del lasciar fare, secondo lei?

T.R. Dei costumi occidentali, rappresentati in ciò che la produzione intellettuale e culturale dell'Occidente ha di più caricaturale ed alienante. Queste influenze nefaste sono distruttrici. Infatti, se si vuole restare giusti col proprio popolo tentando sempre di proteggere la sua identità religiosa e culturale, le autorità politiche si trovano di fronte ad una alternativa: o un'applicazione formale dell'islam, detta shari’ah, accompagnata dal più intransigente apparato repressivo; o l'impegno in un lavoro di riforma della società che passa attraverso l'educazione, stabilendo regole etiche, producendo una cultura alternativa endogena.

La prima soluzione è ingiusta e tradisce il messaggio che dice di difendere. Resta dunque la riforma. Oggi le società musulmane sono governate in due modi; o con la repressione in nome della lettura letterale e ristretta delle fonti; o con un lasciar fare a livello delle influenze culturali esterne che producono una visibile alienazione nelle popolazioni, sempre accompagnata da una repressione d'altro tipo che si abbatte su tutti gli oppositori che osano criticare queste politiche di sottomissione e compromesso di fronte alla cultura dominante.

Risultato: nei due casi si ha ingiustizia e repressione. Nel Nord, non si esauriscono le critiche sulle gestioni sanguinarie del primo modello, ma si resta silenziosi davanti alle atrocità delle gestioni del secondo tipo perché, per l'essenziale, essi difendono gli interessi occidentali. Come se l'assassinio dell'identità e dell'intelligenza culturale di un popolo, accompagnato da una repressione terribile, silenziosa ed invisibile degli intellettuali, fossero accettabili...

Noi dobbiamo gridare a gran voce che ci opponiamo a tutte le forme di repressione, ma questo non può voler dire che accettiamo senza dire una parola un'invasione culturale distruttrice. Questo tipo di distruzione non è meglio della repressione e penso che dobbiamo ascoltare tutti gli intellettuali e tutti i movimenti che, nei paesi musulmani, rifiutano e resistono tanto all'ingiusto apparato repressivo che alla non meno ingiusta colonizzazione dei cuori e delle menti.

A proposito dell’aborto

J.N. Qual è il principio e la pratica a proposito dell'aborto.

T.R. Questa domanda permette di presentare in modo abbastanza chiaro le modalità d'applicazione delle prescrizioni islamiche.

Prima c'è l'enunciazione del principio generale, poi c'è lo studio preciso, approfondito e specifico dei casi particolari che, all'occorrenza, potrà portare all'enunciazione di un parere giuridico in apparente contraddizione col principio generale. Quest'ultimo nell'islam dichiara che l'aborto non è autorizzato salvo situazioni nelle quali i sapienti hanno convenuto che la vita della madre è in pericolo. Vengono poi i casi particolari che portano i sapienti ad interpretazioni più specifiche e più precise dei testi di riferimento che riguardano la vita in generale, la vita dell'embrione, le situazioni personali ed anche i contesti sociali ecc. I pareri giuridici potranno allora essere molteplici e divergere riguardo alle possibilità di abortire.

Alcuni sapienti si attengono al principio generale che ho appena citato e non fanno deroghe in nessun caso; altri affermano che è necessario tener conto di tutti i parametri per enunciare un parere giuridico e, nei casi specifici, autorizzare l'aborto.

Faccio un esempio preciso: il caso degli stupri in Bosnia. Le donne violentate avevano o no il diritto di abortire? Alcuni sapienti hanno risposto di no in nome del principio generale. Altri, come è stato enunciato dalla maggioranza del Consiglio degli ulema del Kuwait, erano di parere opposto, rispondendo che l'aborto in questi casi precisi era autorizzato alla luce dei testi. Ci sono quindi delle divergenze tra i sapienti.

Ciò è vero del resto per casi più particolari, quando una donna o una coppia affermano in coscienza di non poter far fronte ai bisogni futuri del bambino, che gli scogli sono insormontabili, come può a volte accadere in una situazione di handicap prevedibile. Si trovano pareri guridici (fatawa) che autorizzano in casi singolari, specifici o estremi, il ricorso all'aborto. Nel momento in cui il sapiente o il consiglio degli ‘ulema’ che enuncia la fatwa è riconosciuto competente e fonda il suo parere su riferimenti provati e coerenti, allora questo è considerato conforme all'insegnamento dell'islam.

Bisogna aggiungere, come del resto avviene per numerosi consigli aventi la funzione di emettere pareri giuridici, che è richiesto anche il parere di specialisti. Per l'aborto i medici partecipano ai dibattiti e apportano elementi di informazione che permettono agli ‘ulema’ di avere una comprensione profonda dei casi in questione. Come lei vede, al di là del principio generale, l'applicazione del diritto è molto dinamica e impone uno studio razionale e approfondito di ciascun caso, al fine di enunciare un parere caso per caso se circostanze particolari ci obbligano a ciò.

J.N. Questo atteggiamento è davvero rimarchevole. Si avvicina in un certo senso a quello dei protestanti. La morale cattolica o ortodossa rifiuta l'aborto. Il rifiuto è assoluto, anche quando la vita della madre è in pericolo. Tranne se, a quel punto, si prendono le misure necessarie per salvare la vita alla madre e così facendo si uccide il bambino. Ci si persuade che non si è commesso un aborto perché non si aveva l'intenzione di farlo. Si è prodotto da solo. Non si ha colpa.

A titolo di illustrazione di questa condotta goffa, fatta di grandi principi e pratiche opposte, potrei testimoniare quello che ho vissuto nel luglio del 1960 all'epoca dell'indipendenza del Congo. Nel giro di una settimana le truppe congolesi si sono ribellate e hanno violentato a catena le mogli di ufficiali e sottufficiali belgi dell'esercito congolese nel campo di Thysville. Sono state evacuate all'ospedale dell'università di Lovanio, dove in quel momento lavoravo, una università cattolica. Senza tante discussioni si è proceduto sistematicamente al raschiamento. Ovvero non si è neppure atteso di vedere se l'aborto era necessario, si è fatto in modo di sbarazzarsi di tutti gli embrioni che sarebbero stati concepiti in quell'occasione. Era molto curioso, perché i medici lo raccontavano nella sala dei professori dove si trovavano teologi che non protestavano. Grazie a questo episodio mi sono reso conto che i cristiani in certe situazioni si astraggono dalla teoria e iniziano ad applicare una regola pratica evidente in quella situazione. Tanto più che c'erano delle religiose tra le donne violentate.

L'atteggiamento riguardo alla contraccezione

Un pò in disparte rispetto al problema dell'aborto, c'è la contraccezione. Non discutiamo dei mezzi tecnici. Andiamo all'essenziale: vorrei parlare della scelta davanti alla quale si trovano dei genitori che possono ragionevolmente educare e nutrire un certo numero di bambini. Dal momento che non possono averne più di quelli che hanno già, ricorrono a mezzi contraccettivi. Qual è la condotta dell'islam in questo caso?

T.R. La presentazione fatta poco fa del principio generale e dei casi specifici è anche qui una griglia di lettura chiarificante: il principio generale tenderebbe ad opporsi alla contraccezione, ma i casi particolari che la permettono sono numerosi. Dico "tenderebbe" al condizionale perché alcuni sapienti hanno rilevato che il Profeta aveva lasciato fare ai compagni che praticavano la contraccezione naturale tramite il coito interrotto.

Per questi teologi era chiaro che lo scopo dell'atto sessuale non è solo la procreazione ma anche il piacere. Il principio generale, quando è enunciato, non dovrebbe certo concedere un'autorizzazione de facto della contraccezione, ma dovrebbe ai loro occhi, comportare un possibile ampliamento del suo uso, per lo meno quando è naturale.

Abbiamo poi le situazioni specifiche, studiate caso per caso. Troppi bambini, impossibilità di sopperire ai loro bisogni, la salute, la situazione della società circostante, ecc. Tutte le situazioni in cui esistono circostanze particolari che portano una coppia a porsi la questione della contraccezione devono essere studiate in modo specifico. Quando i fatti sono quelli e non si tratta di garantire atteggiamenti egoisti, frivoli o che escono dal quadro dell'etica, si potrà porre il problema e la contraccezione potrà essere autorizzata. I casi di cui lei parla ne sono un esempio. La decisione deve essere presa in due. Molti sapienti hanno messo in evidenza il fatto che l'uomo non può praticare il coito interrotto senza l'autorizzazione della sposa poiché corre il rischio di non rispettare almeno due dei diritti della donna: prima, certamente, quello del suo piacere e poi quello di vivere la sua maternità. Il dialogo e la concertazione tra lo sposo e la sposa devono arrivare fin là.

J.N. Sui due argomenti dell'aborto e della contraccezione, io come cattolico praticante sono molto colpito da questo spazio di libera discussione del quale dispongono i teologi musulmani. I cattolici sono per principio legati a regole enunciate da un organo, la Congregazione per la dottrina della fede, che non cessa di ricordare la sua opposizione alla contraccezione artificiale. Non esiste nessuna istituzione di questo tipo nell'islam? O magari un'università prestigiosa come al-Azhar in Egitto ha, di diritto o di fatto, questo attributo?

L'assenza di una norma unica

T.R. L'istituzione di al-Azhar, al Cairo, è un luogo di formazione di sapienti che possono essere portati ad emettere pareri giuridici. Ma la particolarità dell'islam è di non avere un'unica istituzione di riferimento. Ci sono diversi consigli di sapienti e di specialisti e a volte un sapiente, riconosciuto per il suo sapere e la sua competenza, può diventare il riferimento in campo giuridico. E' il caso oggi come lo è stato in tutto il corso della storia.

In tutto il mondo musulmano e in Occidente esistono spazi per i dibattiti tra sapienti nei quali si discute dell'aborto, della procreazione artificiale, della donazione d'organi e anche di economia, di diritto e di problemi della società. Si fanno ricerche, si emettono giudizi unanimi o a maggioranza. Esiste una fioritura intellettuale impressionante nella nostra epoca, ma non sempre ci si rende conto di ciò dall'Europa.

J.N. Ma allora è un sistema liberale?

T.R. Sì, è un sistema di gestione del diritto molto aperto e molto dinamico che la fedeltà ai riferimenti non deve mai soffocare, al contrario incoraggiare e vivificare.

Alcuni mi dicono: "Il suo atteggiamento è questo perché lei vive in Europa". Come se il dinamismo intellettuale, la libertà di pensiero e di proposte fossero proprie esclusivamente dell'Europa e che in ogni altro luogo i musulmani avessero smesso di riflettere! Questo è tenere in scarsa considerazione il fermento di pensiero che sta attraversando tutto il mondo musulmano. In ogni paese del mondo si pongono questioni e si cerca, dall'interno dei nostri riferimenti musulmani, di trovare le vie per fare gli adattamenti. E' ciò che avviene sia in Malesia, sia nel Medio Oriente, sia in Occidente: si pongono dei problemi e si formulano pareri giuridici tenendo conto delle situazioni particolari. Le risposte di Kuala Lumpur non saranno tutte appropriate per New York e non saranno completamente esportabili a Parigi, la cui situazione differisce da quella di Losanna o di Ginevra. La riflessione è allo stesso tempo generale e localizzata in funzione dei luoghi, delle legislazioni e dei costumi.

J.N. Allora ciò significa che - ed è assolutamente umano - in una determinata università, sia in Egitto, in Algeria, o in Afghanistan, ci sono pressioni sui sapienti, pressioni politiche piuttosto che religiose. Il potere politico può interdire l'insegnamento al tale sapiente perché ciò che dice non va nella direzione del potere.

T.R. Proprio così. Si sa che su alcune decisioni i Consigli di sapienti, ad esempio in Arabia Saudita, sono totalmente legati al potere. La pressione e l'orientamento non lasciano dubbi. E' una cosa comune e alla quale ci si è sfortunatamente abituati.

I poteri danno legittimità a taluni sapienti i cui pareri, sinceramente o per amore del prestigio, garantiscono la politica degli stessi poteri. Nel corso della storia musulmana questa condotta dei governanti è stata una costante. E' il caso dell'Arabia Saudita e di numerosi paesi del Golfo, dell'Egitto, della Tunisia, dell'Algeria, del Marocco. La lista è lunga, troppo lunga...

La separazione delle competenze e dei poteri è un principio islamico ed è necessario che i sapienti si distacchino da queste influenze e conservino la loro totale indipendenza ed autonomia. Oggi, grazie a Dio, c'è un'esplosione degli spazi di concertazione ed alcuni di loro sono al sicuro dai poteri repressivi. E' un buon segno, come lo è il fatto che i sapienti che appoggiano il potere siano conosciuti per quello che sono. Tutti sanno che lo sheikh Tantawi, attualmente a capo di al-Azhar è stato scelto dal presidente Mubarak e che molti dei suoi pareri giuridici sono più "politicamente corretti" che islamicamente fondati. La sua legittimità e la sua credibilità sono molto intaccate oggi.

La donna nella moschea

J.N. Torniamo ancora alla posizione della donna nell'islam vissuta nella pratica religiosa. Quello che mi ha sempre colpito è che, quando si vedono dei musulmani pregare, sono sempre uomini. Mi ricordo che, ma lei può forse correggermi, uomini e donne sono separati nelle moschee, gli uomini davanti e le donne dietro. Ma uomini e donne hanno gli stessi obblighi, le stesse esigenze in materia di partecipazione alla preghiera comunitaria.

T.R. Per ciò che riguarda il legame con Dio e la pratica religiosa in generale, gli obblighi per le donne e per gli uomini sono esattamente gli stessi, con un alleggerimento per le donne mestruate e le puerpere. La pratica è la stessa e le esigenze legate alla spiritualità, al raccoglimento e alla vita interiore sono identiche.

Quanto alle moschee, ci sono diverse situazioni: a volte gli uomini sono davanti e le donne dietro, a volte c'è una separazione tra due spazi contigui, a volte ci sono due piani. L'obiettivo, nella moschea, è di concentrare totalmente il proprio essere, il proprio cuore e la propria coscienza verso Dio: la separazione degli uomini dalle donne permette di evitare le preoccupazioni umane che potrebbero disturbare, tenuto conto della natura degli uomini, l'aspirazione verso il trascendente. La moschea, luogo della prossimità, richiede di proteggersi dalla distrazione.

Da notare che a La Mecca, durante il pellegrinaggio, uomini e donne pregano l'uno accanto all'altra, espressione, in questo momento di intensa spiritualità, di una eguaglianza totale degli esseri al Centro: uomini e donne, insieme, davanti al Creatore. Alla luce di ciò che accade a La Mecca si comprende che la filosofia generale della separazione non ha nulla a che vedere con una discriminazione di fatto ma piuttosto con un riguardo particolare alle esigenze di una spiritualità profonda, concentrata, esclusivamente attenta alla presenza dell'Unico.

Bisogna tuttavia dire che, in certi paesi, in Asia o nelle regioni sotto influenza indo-pakistana, le moschee sono chiuse alle donne. Questa lettura della tradizione non è fedele all'insegnamento del Profeta che aveva detto:"Non impedite alle vostre spose di recarsi in moschea". La frase è chiara e non c'è possibilità di fraintendimenti. Sono stato recentemente in Pakistan, all'isola Maurice e La Réunion dove le moschee il più delle volte sono interdette alle donne. Si tratta di tradizioni che non sono fedeli alle due fonti sulle quali si basa l'islam le sole che fanno fede.

La moschea è un luogo di vita, di studio e di preghiera per le donne come per gli uomini. Quando uomini e donne sono presenti per la preghiera questa è diretta da un uomo, ma per le donne tra loro è una donna che riveste il ruolo di imam (la scuola malikita, maggioritaria nell'Africa del Nord, non lo permette e neppure alcuni sapienti della scuola hanafita). Per la maggioranza dei musulmani la donna ha il diritto di dirigere la preghiera e di essere imam. Alcuni le riconoscono il diritto di dire anche il sermone del venerdì e sono riportati esempi storici che confermano questa possibilità.

J.N. Se facciamo un paragone con la cristianità, si scoprono due atteggiamenti. Da parte dei cattolici, le donne non hanno assolutamente alcuna funzione rituale: il sacerdozio è loro interdetto, malgrado le domande pressanti fatte in questo senso dal popolo cristiano. Tra i protestanti, al contrario, i pastori sono indifferentemente uomini o donne. Se consideriamo ora i sapienti, i teologi, i mollah o gli ayatollah, qui c'è una discriminazione?

T.R. Nella storia musulmana sono stati certamente gli uomini ad essere in maggioranza investiti del sapere. Ma fin dall'origine le donne hanno svolto un ruolo che riconosceva loro la condizione di referente. E' il caso di Aisha, moglie del Profeta, che ha riportato tradizioni e che era continuamente interpellata e consultata in materia di diritto e di tradizione. Molte donne che vissero all'epoca del Profeta hanno avuto un ruolo nell'edificazione del sapere. Si trovano qua e là nel corso della storia donne sapienti, mistiche, ma è più l'eccezione che la regola. Oggi assistiamo ad un'evoluzione interessante: molte università che insegnano scienze islamiche (teologia, diritto, ecc.) hanno aperto le porte alle donne che si contano a migliaia ormai nel mondo musulmano e in Europa, dove il fenomeno è recente ma promettente.

J.N. Le donne sono studentesse e possono essere anche insegnanti?

T.R. Certo. Le studentesse, come ho detto, si contano oggi a migliaia. Ci sono anche insegnanti nei diversi campi delle scienze islamiche. Mia zia era professoressa di economia islamica. E' una specialista tra tante altre donne, alcune delle quali hanno proposto commenti al Corano, spiegazioni di tradizioni profetiche, ecc. Il numero resta ristretto ma si sta delineando una tendenza che favorisce il loro impegno in questa direzione. La stragrande maggioranza delle scuole musulmane ha oggi ammesso questa realtà, anche se i bastioni tradizionalisti continuano a pensare che questo non sia il ruolo delle donne.

Per quanto riguarda l'impegno delle donne in posti di responsabilità sul piano religioso ci sono opinioni giuridiche divergenti. Tuttavia alcuni sapienti difendono l'idea che le donne possono studiare ed insegnare le scienze islamiche, che devono potere, una volta riconosciuta la loro competenza, partecipare ai consigli giuridici ed essere giudici: il dibattito su quest'ultima questione è aperto ma la possibilità esiste ed è riconosciuta da sapienti ai quali ci si rivolge per le consultazioni. In Europa, i luoghi di formazione, come quello di Chateau-Chinon, metà degli studenti sono donne. Il loro dinamismo è evidente e promettente.

J.N. Considerando la comunità che ci circonda, la Francia, il Belgio o la Svizzera, le bambine imparano il Corano come i bambini, esattamente nello stesso modo. Non ci sono discriminazioni?

T.R. Dipende dalle mentalità, certo, ma l'affermazione del Profeta è chiara. In un periodo in cui si uccidevano le bambine alla loro nascita, egli ha detto: Il Paradiso è promesso a chi non uccide sua figlia, non l'insulta e non fa differenza (nella sua educazione) tra lei e suo fratello. Si può forse essere più espliciti? Posso prendere il mio caso: ho una figlia che ha dodici anni, un figlio che ne ha dieci e l'ultimo ne ha sette. I due più grandi seguono esattamente lo stesso insegnamento, con le stesse esigenze e le stesse aspettative. Il più piccolo riceve ovviamente un'educazione adatta alla sua età.

Il matrimonio misto

J.N. Affrontiamo ora un problema grave, il matrimonio misto. Questo tipo di matrimonio si sfalda troppo spesso su problemi che sorgono quando Francesi o Svizzere sposano dei musulmani. Poco importa qui la nazionalità del marito, algerino o francese, il risultato è lo stesso. Ciò diventa drammatico al momento del divorzio, perché alla donna è proibito l'affidamento dei bambini e il diritto di visitarli. Questa penosa situazione umana pone un persistente problema diplomatico tra la Francia e l'Algeria. Può dire qualcosa a questo proposito? Una donna non musulmana che sposa un musulmano non ha per definizione alcun diritto sui suoi bambini?

T.R. Il problema che lei solleva è effettivamente drammatico. La questione dei matrimoni misti merita tutta la nostra attenzione. Si deve fare un vero e proprio lavoro a monte dei matrimoni. Dedico molto tempo ad informare le coppie che si formano sul fatto che bisogna mettersi d'accordo sulle modalità e sulle condizioni del matrimonio. Certo, c'è l'amore, ma nell'islam il matrimonio è un contratto i cui termini devono essere chiaramente stipulati e le aspettative di ciascuno esplicitamente enunciate, in particolare per quello che riguarda i bambini, la loro educazione e la loro custodia. Val più frenare gli ardori dell'inizio, piuttosto che dover constatare il peggio dopo qualche anno.

L'islam esige che un musulmano non lasci mai i suoi bambini e in particolare che faccia in modo di poter dar loro un'educazione in accordo con la sua religione. Questo non significa che la donna non musulmana non abbia alcun diritto sui suoi bambini. Anche se il principio islamico è chiaro, esso non può giustificare qualsiasi cosa ed ogni situazione deve essere regolata caso per caso. Bisognerà sempre evitare la strumentalizzazione della religione sia per giustificare una custodia malgrado i maltrattamenti del padre, sia per demonizzarlo e fare in modo che i bambini vengano tolti al loro padre malgrado la condotta dubbia della madre. Le due situazioni esistono e in ogni caso l'islam ci impone di considerare la giustizia il più oggettivamente possibile.

Che drammi si hanno oggi perché non ci si è presi il tempo di metter le cose in chiaro! A volte l'evoluzione di uno dei due coniugi provoca situazioni nuove che nulla lasciava presagire. Bisogna allora dar prova di psicologia; ascoltare, dialogare, cercare soluzioni umane, dignitose e giuste come in tutte le situazioni simili.

J.N. Il matrimonio misto, almeno con le genti del Libro, ebrei o cristiani, è perfettamente accettato dall'inizio? Non è necessario convertirsi? La situazione è simmetrica tra uomini e donne, nel senso che una musulmana potrebbe sposare un non musulmano?

T.R. La questione del matrimonio misto per i musulmani deve essere considerata nella prospettiva della concezione e della filosofia della famiglia così come sono trasmesse nell'insegnamento dell'islam. Il principio nel matrimonio è l'uguaglianza degli esseri e la complementarietà dei ruoli e delle funzioni.

L'uomo ha il dovere di sovvenire ai bisogni della famiglia e, in questo senso, ha la responsabilità di mantenerla. La donna ha il diritto di non preoccuparsi dei suoi bisogni materiali: è un diritto, non un dovere (come viene presentato a volte da certi musulmani) e nulla impedisce a una donna di lavorare. Nello spazio familiare c'è nell'islam l'idea di un diritto della donna che la può mettere sul piano finanziario in una situazione di dipendenza più o meno relativa.

Questa situazione spiega, a livello di filosofia generale, perché nell'islam un uomo musulmano può sposare una donna delle genti del Libro, cristiana o ebrea, poiché per lui è un dovere rispettare la fede e la pratica di sua moglie e di provvedere ai suoi bisogni. L'inverso non è possibile; una donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra religione poiché essa potrebbe trovarsi in una situazione in cui il responsabile del focolare domestico non riconosce la sua fede, la sua pratica e le esigenze generali e particolari della sua religione. Il grado di possibile dipendenza è maggiore in questo senso con, in più, il fatto che il musulmano riconosce la fede ebraica e cristiana ma un cristiano o un ebreo non considerano la rivelazione dell'islam autentica.

Ciò nonostante numerose musulmane sposano oggi non-musulmani in Europa, non rispettando questo principio islamico stabilito sulla base del consenso generale (ijma'). A volte queste coppie miste, come le altre, sopravvivono ma molto spesso si assiste a situazioni drammatiche. L'evoluzione dell'uno o dell'altro coniuge, a volte la riscoperta tardiva dell'identità religiosa, rimette in discussione aspetti profondi che perturbano la vita di coppia. Alcuni finiscono col separarsi.

Le donne o gli uomini non musulmani non sono i soli responsabili di questi cambiamenti: le musulmane ed i musulmani non sono da meno. A volte, del resto, non si può parlare di errori, si tratta semplicemente di cambiamenti che il tempo e la vita impongono ad un essere umano. In previsione di ciò, si deve fare un lavoro di informazione e comprensione prima dei matrimoni. I buoni sentimenti, allo stesso modo che il solo enunciato dei principi islamici, non può essere sufficiente. Quando si incrociano due religioni o due culture nello spazio dell'intimità familiare, solo la conoscenza, la comprensione, il dialogo, la delicatezza e la pazienza permettono di risolvere i problemi. Dire "è colpa dell'islam, dell'ebraismo, del cristianesimo" è un non-senso, una valutazione superficiale che cerca di confermare pregiudizi preesistenti per i problemi delle coppie miste. Questa valutazione è come un circolo vizioso.

Il problema è profondo. Bisogna evitare il formalismo rigido e apparentemente confortante che troncherebbe a colpi di principi decretati senz'anima né psicologia, come bisogna opporsi alle messinscene che vedono, ad esempio, uomini convertirsi solo per potersi sposare. Questo tipo di soluzione "per oggi" è l'annuncio quasi sicuro di problemi drammatici "per domani".

Una conversione senza la disposizione del cuore e dell'essere è nulla e non avvenuta. Si può provare ad ingannare se stessi ma non si può ingannare il Creatore e domani lo sfaldarsi delle coppie ricorderà agli innamorati di ieri l'esigenza di sincerità di un atto di fede autentico. L'unico che sia degno di un essere umano.

J.N. Se viene pronunciata una sentenza di divorzio in Francia e uno dei coniugi è tedesco, la Germania applicherà la decisione della giustizia francese secondo la legge francese. Se il coniuge tedesco fugge coi bambini in Germania, questo paese applicherà al suo cittadino una decisione presa da un tribunale straniero. Al contrario, è noto che tra la Francia e l'Algeria questa situazione non è rispettata. E ciò provoca ulteriori drammi!

T.R. Bisogna fare un lavoro d'informazione accanto agli psicologi, agli avvocati, ai giudici e agli assistenti sociali in Europa che cadono troppo velocemente nella semplificazione quando hanno a che fare con situazioni di conflitti familiari e di divorzi, dal momento che è implicato un musulmano. L'idea che si fanno dell'islam e delle donne li spinge a dar più rapidamente credito a ciò che dicono le donne. A volte lo fanno con molta sincerità, quasi senza rendersene conto.

Pertanto la giustizia deve restare vigile, a maggior ragione quando si toccano rappresentazioni culturali degli uni e degli altri. Purtroppo accade anche che certe donne ne traggano vantaggio. Non basta essere un marito musulmano per aver torto, non basta essere una donna, musulmana o no, per aver ragione. Parrebbe stupido ricordarlo, ma ho dovuto farlo tante volte durante procedimenti giudiziari. Ho dovuto ricordare con fermezza a uomini musulmani che non dovevano nascondersi dietro un "non amano l'islam" o "mi attaccano perché sono un uomo musulmano" per non riconoscere le loro responsabilità ed i loro errori. La strumentalizzazione delle rappresentazioni funziona nei due sensi e bisogna restare, in ogni circostanza, equilibrati, vigili, meticolosi, intellettualmente onesti ed oggettivi.

La pratica dell’escissione

J.N. Visto che si parla della donna, non possiamo ignorare quello che forse non è che un dettaglio se vogliamo, ma un dettaglio orribile. Può confermare che la pratica dell'escissione non ha nulla a che fare con l'islam? In tutta l'Africa del Nord la pratica dell'escissione è qualche cosa di assolutamente sistematico, nel Senegal, nel Mali, nel Sudan o in Egitto. Qual è la relazione tra questa pratica e l'islam, se ce n'è una?

T.R. Non ce n'è. Bisogna essere chiari una volta per tutte. Alcuni sapienti hanno potuto a volte far riferimento a detti del Profeta che avrebbero lasciato una porta aperta a questo tipo di pratica (in rispetto di pratiche culturali in corso alla sua epoca in certe regioni della penisola). In realtà l'islam non favorisce l'escissione e non ne fa assolutamente un atto raccomandato, come invece avviene per la circoncisione maschile. Si può del resto essere musulmani senza essere circoncisi (non si tratta di un obbligo). L'escissione è una pratica culturale che non ha fondamento religioso. L'idea di negare alla donna la sua sessualità e/o il suo piacere nella sessualità è, l'abbiamo detto, in totale disaccordo con l'insegnamento islamico.

L'islam riconosce le pratiche culturali purché queste non si oppongano ad un obbligo o una proibizione enunciate nelle fonti scritte. Alcuni sapienti musulmani hanno dunque fatto mostra di tolleranza di fronte a queste pratiche ma la loro lettura è specifica e discussa. Il caso dell'infibulazione non ha possibilità di discussione e si oppone chiaramente agli insegnamenti dell'islam. Su questo argomento bisogna promuovere l'informazione, l'educazione e l'istruzione: è il vero mezzo per opporsi a pratiche di questo tipo. Reprimere non porterà a granchè se questo non è accompagnato da una campagna d'informazione che ricorda alle musulmane e ai musulmani che l'islam non esige nulla del genere, in nessuna circostanza.

J.N. Abbiamo passato in rassegna una serie di problemi che creano tensioni tra il cristianesimo e l'islam e che, tutte, sono centrate sulla relazione uomo-donna. La sessualità vissuta diversamente dalle due religioni non è alla radice di questi problemi?

La sessualità come adorazione del creatore

All'interno della cristianità, dalle sue origini, dopo i due padri fondatori della Chiesa, Paolo di Tarso e Agostino d'Ippona, si nota una diffidenza della sessualità e del piacere. Paolo di Tarso, del resto, fa un'apologia del celibato; il matrimonio è solo uno stato di vita accettabile per soddisfare i bisogni sessuali se non si arriva a dominarli. Da parte dei cristiani più integralisti, il piacere è solo tollerabile poiché difficilmente ci si può riprodurre e conservare come setta, se ci si astiene completamente dalle relazioni sessuali. La posizione ufficiale della Chiesa cristiana è oggi molto più aperta, più da parte dei protestanti che dei cattolici o degli ortodossi. Ma resta il fatto che l'obbligo del celibato per il clero cattolico manifesta sempre, che si voglia o no, una forma di diffidenza. La vita monastica riposa su tre voti: obbedienza, povertà e castità.

Da parte dell'islam la sessualità è considerata sana e normale?

T.R. Oserei dire che la sessualità è considerata molto più che semplicemente "sana e normale". C'è da stupirsi, e i musulmani per primi, a leggere certi testi giuridici del XIII e XIV secolo, nei quali gli autori non esitano ad affrontare apertamente la questione della sessualità ed a determinare ciò che in questo campo è permesso o no secondo l'insegnamento dell'islam. I loro argomenti sono in avanti rispetto a quello che ci offre il discorso freddo, impacciato e un pò a disagio della maggior parte dei sapienti contemporanei. Ponendosi, ovviamente, all'interno del quadro del matrimonio, questi antichi testi parlano del piacere, dei preliminari, dei corpi, e descrivono le posizioni possibili dell'amore, e tutto ciò in modo esplicito. Ricordano in questo l'insegnamento di Aisha, moglie del Profeta, che benediceva le donne di Medina, il cui pudore non impediva loro di porre tutte le domande delicate legate all'intimità. A questo proposito dunque tutto è permesso eccetto la sodomia: dolcezza, sensualità, preliminari, ecc. nel rispetto delle aspettative e del piacere dell'uomo e della donna.

In una tradizione (hadith) riportata, il Profeta associa l'atto sessuale, purché vissuto nel quadro lecito, ad una elemosina, nel senso che diventa espressione di un atto di adorazione di fronte al Creatore. La sessualità è dunque l'espressione dell'essere che accetta tutto del dono di Dio, nel suo cuore come nel suo corpo e che ha coscienza della propria responsabilità nel dominare le sue pulsioni ed i suoi istinti per permettere loro di vivere totalmente nella trasparenza e nel dono, con l'essere che l'accompagna davanti a Dio. Gli uomini che circondavano il Profeta furono meravigliati da questo insegnamento che incoraggiava a vivere la vita dei loro corpi e dei loro desideri.

L'islam si presenta come la religione dell'equilibrio ed il suo messaggio in materia è che un essere umano senza sessualità non è equilibrato. E sempre si delinea la via del giusto mezzo: nessuna sessualità o una sessualità sfrenata sono entrambe premesse di squilibrio.

La proibizioni dell’omosessualità

J.N. Ma sono illecite, come lei dice, un certo numero di pratiche ed in particolare l'omosessualità. L'omosessualità non è incoraggiata, tutt'al più è tollerata?

T.R. L'omosessualità non è permessa nell'islam e la sua legalizzazione pubblica, come viene rivendicata in Europa, non può essere considerata né sul piano del riconoscimento sociale, né sul piano del matrimonio, né sotto altra forma. Lì c'è un limite riguardo all'espressione della norma che si applica allo spazio sociale e pubblico.

Il dibattito sull'omosessualità è complesso e mette in evidenza in ogni caso due concezioni dell'uomo: per l'islam, l'omosessualità non è naturale, essa esce dalla via e dalle norme della realizzazione degli esseri umani davanti a Dio. Questo comportamento rivela un turbamento, una disfunzione, uno squilibrio. Non si tratta di sviluppare un discorso di rifiuto, di condanna di "questi malati" che ci circondano. Alcuni musulmani, sapienti o meno sapienti, parlano in questo modo, ma non mi associo a questo discorso.

Oggi ci sono un'analisi ed una riflessione da sviluppare a monte: il limite, l'ho detto, è chiaro riguardo alla proibizione, ma l'applicazione deve tener conto della società, dell'ambiente, della storia personale degli esseri. Non si tratta di colpevolizzare, ma di accompagnare, di orientare, di riformare, per accedere all'equilibrio della spiritualità, dell'intimità e della vita del corpo.

J.N. Nella pratica è tutto diverso. In certi paesi musulmani esiste ancora la repressione legale della sessualità, come abbiamo visto con l'ex vice Primo Ministro di Malesia che è effettivamente perseguitato per fatti di omosessualità.

T.R. Ogni giorno nuove rivelazioni mettono in evidenza che le accuse contro l'ex vice Primo Ministro, Anwar Ibrahim, sono state inventate di sana pianta dal Primo Ministro e dal suo personale, al fine di eliminare un uomo che stava prendendo troppo spazio nel cuore del popolo e agli occhi dei governi del mondo. In un paese molto sensibile alla morale ed al comportamento, un'accusa che si basa sui costumi sessuali segna la fine di un uomo pubblico.

J.N. E' un buon pretesto.

T.R. Sì, ma bisogna ancora attendere che queste illazioni vengano confermate. Nel caso della Malesia la menzogna è palese e Ibrahim si trova chiaramente di fronte ad una macchinazione. L'uomo che avrebbe avuto una relazione omosessuale con lui si è contraddetto durante il processo. Le accuse di sodomia e omosessualità non hanno alcun fondamento. Credo che si debbano leggere gli avvenimenti della Malesia attraverso la lente della lotta politica e non con l'idea di una repressione della sodomia e dell'omosessualità proibite nell'islam.

J.N. Ancora una volta, per essere equi, bisogna ricordare che all'inizio del secolo l'omosessualità tra adulti consenzienti era considerata un delitto in una società relativamente liberale e permissiva come l'Inghilterra. Lo scrittore Oscar Wilde è stato in prigione per omosessualità, sottoposto a lavori forzati degradanti, poi esiliato e tagliato fuori. E' difficile spazzare davanti alla porta del vicino quando la propria soglia è sporca. Riassumendo, ciò che abbiamo scoperto della donna musulmana è molto diverso da quello che si pensa in Occidente. Secondo il Corano il principio è l'uguaglianza tra uomini e donne, ad eccezione della situazione matrimoniale in cui l'islam tiene conto della situazione di fatto. In questa relazione l'uomo e la donna sono complementari, non identici; l'islam ha una concezione della famiglia che implica l'educazione dei bambini alla religione. Per questo motivo i matrimoni misti, nell'unico caso autorizzato, quello tra marito musulmano e moglie cristiana o ebrea, costituiscono avventure rischiose. Su questo punto sensibile, si sperimenta tutta la differenza tra l'Occidente laico e l'islam profondamente religioso. L'atteggiamento attuale dell'islam non è del resto molto diverso da quello della Chiesa cattolica di un secolo fa. In altre parole quando la religione impregna tutta la vita, essa ha una forte influenza sulla concezione del matrimonio. Al di fuori del contesto di una fede religiosa, il matrimonio non è altro che un contratto sociale con clausole giuridiche e finanziarie. Tale è l'ambito esatto della differenza.

Nel mondo musulmano ci sono altre pratiche sociali di fronte alle quali l'islam emette pareri giuridici diversi. Abbiamo parlato della poligamia che è autorizzata ma con condizioni molto restrittive. L'escissione in quanto tale non ha fondamento islamico. Non si può rendere l'islam responsabile di queste pratiche ma penso che dispiaccia che la lotta per porvi termine non sia stata più vigorosa.

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Scheda introduttiva Introduzione Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6
* Jacques Neirynck e Tariq Ramadan: Possiamo vivere con l'Islam?

Prima edizione italiana ottobre 2000 / shaban 1421 © Edizioni " Al Hikma" 2000 per la traduzione italiana

Ed. “Al Hikma” C.P. 653, 18100 Imperia Tel. 0183.767601, fax 0183.764735 e-mail: alhikma@uno.it

Titolo originale dell’opera " Peut-on vivre avec l’ Islam" © Édition FAVRE SA 1999 Lausanne, Suisse

Il libro può anche essere acquistato a vantaggiose condizioni sul sito: www.libreriaislamica.it

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